Il fantasma di Zappolino
Le vicende della storia recente italiana sono spesso ammantate di connotazioni misteriose ed occulte.
Questo vecchio articolo, che ho ritrovato fra i miei appunti (risalente al 2018), scritto Davide Maria De Luca (credo che sia stato pubblicato sul quotidiano ‘Il Post’) ne è una testimonianza.
Narra di come, 40 anni fa, Romano Prodi raccontò di aver scoperto dov’era tenuto prigioniero Aldo Moro durante una seduta spiritica.
La cosa inquietante è che ci andò molto vicino…..
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Il 4 aprile del 1978 un professore universitario bolognese, Romano Prodi, raccontò a un alto funzionario della Democrazia Cristiana (DC) che durante una seduta spiritica aveva scoperto dov’era tenuto prigioniero Aldo Moro, il presidente della DC rapito dalle Brigate Rosse due settimane prima. Spiegò che la seduta spiritica era avvenuta due giorni prima a Zappolino, un comune poco fuori Bologna, e che gli spiriti avevano rivelato a lui e a altri presenti che Moro era prigioniero a Gradoli, un paesino vicino a Viterbo, sul lago di Bolsena. La segnalazione fu presa seriamente e arrivò alla polizia, ma gli agenti mandati sul posto non trovarono nulla. Due settimane dopo a Roma la polizia scoprì per caso l’appartamento dove viveva Mario Moretti, l’organizzatore della strage di via Fani e uno dei carcerieri di Aldo Moro. Moretti sfuggì alla cattura – che avrebbe potuto cambiare le sorti del sequestro – perché aveva lasciato il covo per l’ultima volta poche ore prima. Il covo si trovava in via Gradoli, sulla strada che porta a Viterbo.
Dopo l’uccisione di Moro, magistrati e commissioni di inchiesta chiesero più volte ai dodici partecipanti alla seduta di Zappolino come fosse stata possibile una simile coincidenza.
Tutti quanti confermarono la versione di Prodi: la parola “Gradoli” associata al rapimento di Aldo Moro era emersa durante una seduta spiritica in una villa fuori Bologna, il 2 aprile del 1978. Sono passati esattamente quarant’anni e nessuno dei dodici protagonisti ha cambiato versione: tutti parlano seriamente di una seduta spiritica compreso Prodi, che nel frattempo è stato due volte presidente del Consiglio e capo della Commissione europea. A seconda di come la si vuole leggere, questa è la storia dell’ultimo mistero del caso Moro o della sua più grottesca coincidenza.
Non è stata dedicata molta attenzione alla misteriosa rivelazione che Romano Prodi fece il 4 aprile del 1978. Gli speciali televisivi hanno dedicato all’episodio pochi minuti, ripetendo sostanzialmente cose già note. Non sono state pubblicate nuove inchieste e nessuno dei partecipanti a quell’episodio ha voluto aggiungere alcunché per chiarire cosa accadde davvero. Nemmeno la seconda commissione parlamentare d’indagine sul caso Moro, che ha concluso i suoi lavori lo scorso dicembre, ha aggiunto molto su quella vicenda. «Sostanzialmente non ci siamo occupati della seduta di Zappolino», ha raccontato al Post l’ex deputato del PD Gero Grassi, uno dei componenti più attivi della commissione.
Eppure l’attenzione sui veri e soprattutto presunti misteri del caso Moro non è mai mancata. Nella prefazione all’edizione aggiornata del libro Un affare di stato, il giornalista Andrea Colombo scrive: «Quando questo libro fu scritto, dieci anni fa, la bibliografia sul sequestro e l’uccisione di Aldo Moro era già tale da occupare un’intera biblioteca. La stragrande maggioranza degli studi partiva dal presupposto che la verità sull’uccisione dello statista democristiano fosse in realtà ancora sconosciuta». Invece, continua Colombo, «dietro l’uccisione di Aldo Moro non c’è nessun segreto, nulla che non si può o non si voglia rivelare». Le piste occulte, le inconfessabili trame internazionali, le improbabili coincidenze, sono state negli anni rivelate nella loro inconsistenza da studiosi rigorosi come Vladimiro Satta (il libro di Colombo è uno dei pochi, tra quelli usciti ultimamente, a utilizzare le corpose ricerche di Satta).
Quarantatré anni dopo quei fatti, la seduta di Zappolino è uno dei pochi “misteri” che ancora resistono ai tentativi di spiegazione. Cosa accadde davvero il pomeriggio del 2 aprile a Zappolino? Cosa raccontò esattamente Romano Prodi agli alti funzionari della DC a Roma il 4 aprile? Come era venuto a sapere davvero che Gradoli e Viterbo erano due indicazioni in grado di portare vicino al luogo dove era tenuto prigioniero Moro? Sono tutte domande ancora senza una risposta univoca.
Il 2 aprile del 1978 dodici adulti e cinque bambini parteciparono o assistettero alla “seduta parapsicologica” di Zappolino, come la definirono loro stessi. Nove erano professori dell’Università di Bologna e negli anni successivi cinque di loro sarebbero divenuti presidenti del Consiglio, ministri, viceministri o presidenti di importanti società pubbliche. Gli altri erano mogli o mariti. Esclusi i bambini, i partecipanti avevano tra i 30 e i 40 anni (Prodi ne aveva 39). Tutti e dodici firmarono la lettera scritta da Romano Prodi nel 1981 che attesta che le cose andarono esattamente come lui le aveva raccontate al funzionario DC durante il sequestro. Questo documento è diventato nel tempo la versione ufficiale, a cui i dodici partecipanti si sono sempre attenuti.
Il racconto ufficiale comincia il 2 aprile del 1978, due settimane dopo il rapimento Moro, quando Alberto Clò, professore di Economia dell’Università di Bologna, invitò un gruppo di amici per un pranzo nella sua villa di Zappolino, poco fuori Bologna. Costretti in casa dalla pioggia, i docenti decisero di ingannare il tempo con il “gioco del piattino”: e visto che in quei giorni non si parlava che di Moro, pensarono di domandare agli spiriti dove fosse tenuto prigioniero il presidente della DC. Su un grande foglio di carta scrissero lettere e numeri. Poi, a turno, poggiarono l’indice su un piattino da caffè rovesciato. L’idea dietro al gioco è che, una volta posta la domanda, gli spiriti compongano la risposta muovendo il piattino e facendolo fermare sulle varie lettere disposte sul tavolo. Per un prestigiatore o per un truffatore non è affatto difficile orientare e “spingere” il piattino senza che nessuno si accorga di niente. Secondo tutti i protagonisti, però, quel pomeriggio non ci fu nessun trucco. Quando agli spiriti fu chiesto se Moro fosse vivo e dove si trovasse, una forza sconosciuta mosse il piattino sul tavolo e, senza l’aiuto di nessuna mano umana, compose le parole: Viterbo, Bolsena e Gradoli.
Questo è il contenuto essenziale e scarno della lettera firmata dai dodici partecipanti, cioè la versione ufficiale. Nel tempo, alcuni dei protagonisti hanno arricchito di dettagli la vicenda. La descrizione più vivida dell’episodio la dette proprio Romano Prodi, durante la sua audizione alla prima commissione parlamentare d’indagine sul caso Moro, nel giugno del 1981. Prodi raccontò che le domande vennero rivolte agli spiriti di don Luigi Sturzo e di Giorgio La Pira, storico sindaco democristiano di Firenze. Alberto Clò, il proprietario di casa e ideatore del gioco, disse che la seduta durò dalle 15.30 circa fino alle 18. Mario Baldassarri, uno dei partecipanti arrivato in ritardo all’incontro, raccontò che in un primo momento «uscivano cose assolutamente prive di senso: lettere in sequenza, k, z, t, r, senza alcun significato» e che solo dopo un lungo lasso di tempo iniziarono a formarsi parole di senso compiuto. Tutti i partecipanti dissero di essere assolutamente certi che nessuno avesse manipolato il gioco: le parole si erano formate grazie a una forza che non erano in grado di spiegare.
Il gioco, anche su questo sono tutti concordi, ebbe una svolta quando il piattino formò la parola “Gradoli”. Le parole “Viterbo” e “Bolsena” non avevano infatti insospettito nessuno: erano località conosciute da tutti. Gradoli invece nessuno sapeva cosa fosse, ma allo stesso tempo sembrava un’indicazione coerente, non un insieme casuale di lettere.
A qualcuno venne l’idea di controllare se per caso esistesse un paese con quel nome vicino a Viterbo. Andarono a prendere uno stradario in macchina e quando lo aprirono si accorsero con grande sorpresa che Gradoli era un piccolo paese appena fuori Viterbo, lungo la statale 74. «All’indomani», scrivono i dodici illustri firmatari della lettera, «fu quindi normale che della cosa si sia venuti a parlare con amici e conoscenti». Soltanto nel caso del professor Prodi, però, parlarne con «amici e conoscenti» significò riferire alle autorità quello che era emerso durante la seduta. Il 4 aprile, due giorni dopo la seduta, Prodi – che era già molto vicino alla Democrazia Cristiana – andò a Roma e riferì della seduta a Umberto Cavina, portavoce del segretario della Democrazia Cristiana, Benigno Zaccagnini. A quanto è emerso fino a oggi, nessun altro partecipante raccontò dei risultati della riunione fino a dopo la fine del sequestro di Aldo Moro. Cavina, il funzionario DC con cui Prodi parlò il 4 aprile, oggi è morto; il Post ha provato a interpellare Romano Prodi, che ha fatto sapere di non avere altro da aggiungere sulla vicenda oltre alle numerose testimonianze già date in passato.
Cosa disse esattamente Prodi una volta arrivato a Roma è una delle questioni centrali dell’intera vicenda. La presunta seduta spiritica fu lunga e caotica, hanno raccontato tutti i protagonisti. Alcuni di loro si avvicinavano al tavolo, partecipavano al gioco e poi si allontanavano, sostituiti da altri. I bambini correvano e giocavano tutt’intorno a loro. Si beveva Coca Cola e poi ci si allontanava dal tavolo per andare a controllare se il caffè fosse uscito. Nel frattempo il piattino produceva parole su parole, alcune di senso compiuto, altre inintelligibili. Ma il piattino indicava anche numeri e sigle che finivano con il complicare il tutto. Nessun avrebbe preso seriamente il gioco, raccontano, se una delle parole che si formarono non fosse stata “Gradoli”, un comune realmente esistente, ma che tutti assicuravano di non aver mai sentito nominare.
Il problema è che, stando a quanto attestano i documenti dell’epoca, l’indicazione che Prodi fornì alle autorità non era affatto così vaga e limitata a quelle uniche tre parole, “Bolsena”, “Viterbo” e “Gradoli”. Un appunto del ministero dell’Interno, datato 5 aprile 1978, contiene indicazioni ben più dettagliate: «Lungo la statale 74, nel piccolo tratto in provincia di Viterbo, in località GRADOLI, casa isolata con cantina».
Questo biglietto fu scritto da Luigi Zanda, all’epoca stretto collaboratore del ministro dell’Interno Francesco Cossiga e oggi importante politico del Partito Democratico. «Fu una segnalazione come tante, ne arrivavano a decine in quei giorni», ha raccontato al Post Zanda, oggi senatore del PD. A fargli questa segnalazione era stato proprio Cavina, il dirigente incontrato da Prodi. Zanda ha spiegato che in quei giorni era così comune ricevere una soffiata come quella che non ne chiese la fonte, ma si limitò a passarla al capo della polizia. «Ho ricevuto molte segnalazioni in quel periodo, così come ne ha ricevute molte anche il ministro e molti altri dei suoi collaboratori: era un fatto abituale e del resto Cavina in quell’occasione mi fece anche un’altra segnalazione», ha spiegato Zanda. Sul biglietto, infatti, si legge anche l’indirizzo di un appartamento a Milano.
Il biglietto scritto da Luigi Zanda tra il 4 e il 5 aprile, sulla base della segnalazione ricevuta da Umberto Cavina, che a sua volta l’aveva ricevuta da Romano Prodi.
Il giorno dopo il capo della polizia ordinò di effettuare un controllo e 24 tra carabinieri e agenti di polizia della questura di Viterbo si recarono a Gradoli, un paese di meno di duemila abitanti, dove perquisirono un casolare e alcune grotte vicino alla statale 74. Il risultato di quella ricerca si trova riassunto da un’altra mano sullo stesso biglietto di Zanda: «Il sopralluogo ha dato esito negativo».
Nel rapporto di quell’azione infruttuosa, però, il vicequestore di Viterbo ripeteva ancora una volta l’indicazione molto accurata uscita dalla seduta di Zappolino: casa isolata con cantina, nel comune di Gradoli, in provincia di Viterbo. E questa indicazione si trova anche nel verbale della deposizione di Prodi ai magistrati di Bologna nel dicembre del 1978. All’epoca fu lui stesso a specificare che tra le informazioni che aveva dato a Cavina c’era anche di cercare una “casa isolata con cantina”.
Il rapporto del questore di Viterbo sulla perquisizione effettuata in un casolare di Gradoli, in provincia di Viterbo
L’appunto è depositato, come tutti gli altri documenti citati, negli atti della prima commissione Moro, che oggi, insieme a tutti gli altri documenti prodotti dalle altre commissioni che si sono occupate del caso, sono accessibili a chiunque grazie al lavoro del senatore Gero Grassi e dei suoi assistenti.
Nonostante questo, negli anni sulla perquisizione di Gradoli sono state diffuse molte ricostruzioni improbabili. È stato detto per esempio che la perquisizione di Gradoli fu un’azione militare con centinaia di agenti coinvolti, filmata dalle televisioni e mostrata dai telegiornali in prima serata (persino Colombo, nel suo documentatissimo libro, parla di “centinaia” di agenti coinvolti). In realtà, come dimostrano le carte, fu un’operazione limitata e di cui, come hanno dimostrato numerosi ricercatori, non venne data notizia alla stampa fino alla fine del mese.
È stato detto anche che la segnalazione di Prodi fu presa sul serio per via dell’alto profilo dei partecipanti alla seduta, o solo perché qualcuno era a conoscenza di segreti inconfessabili. In realtà in quei giorni confusi di segnalazioni come quella ne arrivavano a decine, al punto che nemmeno si faceva caso alla loro provenienza. «La situazione era tumultuosa e le sensazioni che tutti provavamo erano molto forti», racconta oggi Zanda ricordando quel periodo. Per dare un’idea della vastità dello sforzo in corso, basta ricordare che nei 55 giorni del sequestro Moro furono perquisiti in tutta Italia 37.068 tra appartamenti e altri edifici. Soltanto a Roma si facevano 121 perquisizioni domiciliari ogni giorno.
Quello che oggi quasi tutti danno per assodato è che la seduta spiritica fu in realtà un modo estremamente goffo di nascondere una fonte che bisognava proteggere. Secondo questa teoria, uno dei professori avrebbe ricevuto l’informazione su via Gradoli e avrebbe usato la scusa della seduta spiritica per rivelare l’informazione in sicurezza. Su chi fosse la fonte da proteggere sono state fornite le teorie più svariate. Alcuni suggerirono immancabilmente i servizi segreti, ma non è chiaro perché avrebbero dovuto seguire una via così tortuosa e che avrebbe certamente finito con l’attirare l’attenzione. Altri ipotizzarono che la fonte fosse qualcuno appartenente o vicino a un ramo “dissidente” delle BR, intenzionato a far catturare Moretti. Nel 2006 il presidente della commissione Mitrokhin, Paolo Guzzanti, disse che l’informazione era arrivata dal KGB, il servizio segreto sovietico.
La spiegazione più plausibile, e su cui concorda la maggior parte dei ricercatori più scrupolosi, è che l’informazione arrivasse da qualcuno vicino ai movimenti dell’estrema sinistra. Bologna all’epoca era una città ricca di gruppi autonomi di estrema sinistra, anche tra gli studenti universitari, e secondo molti è possibile che qualcuno a conoscenza del covo di via Gradoli abbia fatto arrivare l’informazione ai professori. Alcuni sostengono da anni di aver identificato la fonte dell’informazione in Franco Piperno, uno degli ideologi del movimento studentesco, all’epoca professore all’Università della Calabria, la stessa dove insegnava Beniamino Andreatta, importante dirigente della DC e mentore politico di Prodi.
Piperno però ha sempre smentito, e gli stessi brigatisti hanno sempre negato che il covo di via Gradoli potesse essere oggetto di pettegolezzi all’interno dell’organizzazione.
Ma il problema più grosso di tutte queste teorie è un altro. I documenti dimostrano che l’informazione era allo stesso tempo estremamente precisa ed estremamente sbagliata: il covo delle BR non si trovava in una casa isolata con cantina sulla statale 74 poco fuori dal paese di Gradoli, in provincia di Viterbo, bensì in un condominio di via Gradoli, a Roma, a quasi 50 chilometri di distanza. Non è chiaro, quindi, che interesse avrebbe avuto la fonte a fornire un’indicazione allo stesso tempo precisa ma fuorviante. Come ha riassunto correttamente l’ex deputato Marco Taradash, membro di una delle cinque commissioni parlamentari che si sono occupate del caso Moro: «È assurdo pensare che un informatore che è a conoscenza di qualcosa sappia soltanto un nome, “Gradoli”, e non anche “via Gradoli”».
Sono poche le spiegazioni che restano. Una è che lo scambio di “Gradoli” con “via Gradoli” sia il frutto di un errore come quelli che avvengono nel gioco del “telefono senza fili”. L’informazione che in via Gradoli, a Roma, sulla strada per Viterbo, c’era un covo delle BR sarebbe passata di bocca in bocca talmente tante volte da trasformarsi. “Via Gradoli” divenne “Gradoli”; “sulla strada per Viterbo” divenne “in provincia di Viterbo”. Lungo il percorso vennero aggiunti anche altri dettagli: Bolsena, statale 74, casa isolata con cantina.
Quando gli chiesero come mai nell’appunto di Zanda ci fossero molte più informazioni di quanto affermato nella lettera firmata dai dodici professori, Prodi spiegò che probabilmente quei dettagli erano stati aggiunti dagli stessi professori per eccesso di zelo in un secondo momento. Per esempio “statale 74” sarebbe emerso quando, consultando la mappa, notarono che la strada che passa per il comune di Gradoli si chiamava così.
C’è stato anche chi ha sostenuto che la soffiata di Prodi non fu affatto così fuorviante come la raccontano i documenti. In una lettera inviata alla prima commissione Moro nel 1981, la deputata DC Tina Anselmi scrisse che Cavina, il dirigente della DC con cui aveva parlato Prodi, le parlò di una segnalazione in cui si parlava di “Gradoli, via Cassia, Viterbo”, e che comprendeva una serie di numeri che lei non ricordava ma che si rivelarono identici sia alla distanza tra Gradoli e Viterbo, sia al civico e all’interno del covo di via Gradoli.
Inoltre, la famiglia di Moro sostiene che, quando venne a sapere dell’infruttuosa perquisizione a Gradoli, suggerì alla polizia di controllare anche via Gradoli (una circostanza sempre smentita dal ministero dell’Interno).
Queste due circostanze hanno contribuito a creare l’impressione che qualcuno sapesse di via Gradoli, ma che non volesse scoprire quel che c’era da scoprire.
Il racconto di Anselmi, però, non sembra del tutto convincente.
Il covo di Mario Moretti si trovava all’interno 11 del numero 96 di via Gradoli, mentre la distanza tra Gradoli e Viterbo è di circa 50 chilometri. Inoltre Anselmi, stando ai verbali delle commissioni, probabilmente non venne a sapere della seduta fino a quando i giornali, a fine aprile, non iniziarono a parlare della perquisizione di Gradoli, facendo spesso ipotesi su potenziali collegamenti con la via in cui era stato trovato il covo di Moretti. I documenti inoltre sembrano molto chiari: l’indicazione che fornì Prodi non poteva dare adito a dubbi. Sosteneva che Moro fosse prigioniero in un casolare nella campagna viterbese, non in un grosso condominio in una via di Roma.
Se decenni di dietrologie e complotti hanno finito con l’oscurare i ricordi persino degli stessi protagonisti di questa storia, diventa interessante rileggere cosa sostenevano quando la vicenda era ancora fresca nella loro memoria e non inquinata da anni di interviste, audizioni, supposizioni e sospetti. Per esempio, l’allora ministro dell’Interno Cossiga era uno dei più convinti sostenitori della teoria della “soffiata” da parte di ambienti dell’autonomia bolognese; ma nel 1980, quando la prima commissione Moro gli chiese cosa pensasse della coincidenza tra la segnalazione di Prodi su Gradoli e il covo di via Gradoli, rispose che non aveva «motivo di ritenere che vi sia un collegamento tra le due cose». Nel 1980, insomma, non sembrava così assurdo, come ci sembra oggi, che un gruppo di illustri professori universitari decidesse di ingannare il tempo con una “seduta spiritica”. E forse non era davvero così assurdo come può sembrare nel 2018.
Negli anni Settanta l’Italia era un paese molto più ingenuo di oggi. Appena pochi anni prima della seduta di Zappolino, la finale della popolarissima trasmissione Rischiatutto era stata vinta da Massimo Inardi, un esperto di musica autodefinitosi “professore di parapsicologia”. Inardi partecipò a nove puntate del programma e lo fece con un tale successo che a un certo punto a Mike Bongiorno furono forniti fogli che non contenevano le risposte al quiz ma solo le domande, nel timore che Inardi fosse in grado di leggergli nel pensiero. Quelli erano anche gli anni di massima celebrità di Gustavo Adolfo Rol, un prestigiatore di Torino ai cui “prodigi” numerosi giornali dedicarono lunghi articoli proprio tra il 1977 e il 1978.
Anche gli investigatori del caso Moro ricorsero alle facoltà medianiche di alcuni veggenti per ricevere un aiuto nella soluzione del caso. Successe almeno in un paio di casi, il più curioso dei quali fu quello delle visioni di una suora di clausura. Come ha ricordato Massimo Polidoro, fondatore del CICAP, all’epoca «ovunque, tra la gente, sui giornali o in tv, si dava per scontato che certi accadimenti o certe facoltà paranormali fossero reali».
Per coloro che ritengono il “telefono senza fili” una spiegazione ancora troppo contorta, e per quelli che non vogliono ipotizzare il silenzio complice e quarantennale dei dodici illustri personaggi presenti alla seduta, rimane quindi aperta un’ultima possibilità: che le cose siano andate come i partecipanti raccontano da 40 anni. Il nome Gradoli venne fuori per caso, durante un gioco. La “seduta”, sostengono i partecipanti, durò diverse ore e in casi simili è facile immaginare che a muovere il piattino, più che uno spirito o un baro, siano i movimenti involontari e inconsci di chi ci teneva sopra il dito. Tutti i partecipanti sono concordi nel dire che la maggior parte dei risultati prodotti era priva di senso, come ci si aspetterebbe da una serie di movimenti dettati dal caso.
Il professor Clò, inoltre, raccontò che in diversi momenti il gioco si interrompeva per discutere se il piattino si fosse o meno fermato su una certa lettera che avrebbe dato un senso piuttosto che un altro alla parola che stava emergendo.
Baldassarri arrivò a sostenere che in realtà non era mai emersa la parola Viterbo, ma solo la sigla “VT”.
A quel punto è possibile che qualcuno iniziò ad orientare il piattino affinché componesse la parole Gradoli e poi, forse per scherzo, negasse di fronte a tutti gli altri di sapere cosa significasse quel nome. Sarebbe stato poi per un eccesso di zelo, o forse per farsi notare dagli alti dirigenti democristiani, che Prodi decise di riferire quel risultato. Il gesto, comunque, di sicuro non danneggiò la sua carriera: appena sette mesi dopo quella seduta fu nominato per la prima volta ministro dell’Industria.