Il Djed
Sembra che esso sia un attributo del dio Osiride, il cui significato ci sfugge nonostante appaia di frequente nell’iconografia egizia, a volte anche in versione antropomorfa, munito di due piccole braccia che reggono le insegne regali.
Malgrado gli egittologi abbiano tentato di trovare l’interpretazione più appropriata di questo geroglifico, a partire da quella dell’albero spogliato delle fronde per arrivare alla spina dorsale di Osiride, sino al simbolo di un luogo ben preciso consacrato al dio, quello “dei quattro pilastri”.
Restano tutte, per il momento, soltanto ipotesi. Una conferma non c’è. Sin dai tempi dei faraoni, il djed (dd) è anche un amuleto di primo piano. Lo troviamo esposto nei diversi musei che raccolgono le antichità delle Due Terre, solitamente è fatto di turchese oppure di faience (materiale vetroso egizio). Regna sovrano nei negozi di souvenir, accanto ai gatti accovacciati e alle statuette variopinte che raffigurano dei e faraoni.
Il djed è ovunque. Affascina per la sua forma obsoleta e tuttavia semplice che permette le interpretazioni più disparate. Ma nessuno conosce il suo significato originario. Un giorno i testi sacri lo legarono indissolubilmente a Osiride, signore della vegetazione, della rinascita e delle necropoli. Ad Abido, città che un tempo conservava la reliquia importantissima della testa di Osiride, il djed impera sulle bellissime pitture geroglifiche policrome del tempio di Seti I. L’edificio sacro in cui si trova anche una lista reale con i cartigli di ben 76 sovrani egizi.
Abido, l’antica “Abedju”, città sorta dalle sabbie dell’Alto Egitto, fu capitale dell’VIII distretto. Originariamente il patrono della città era il Khenti-amentiu (il “primo degli occidentali”) che finì per divenire tutt’uno con Osiride. Miracoli del sincretismo. Accanto al tempio di Seti I, c’è il misterioso Osireion, struttura ipogea periodicamente invasa dalle acque e, a circa due chilometri di distanza, s’innalza il colle dell’antica “Peqer”, la necropoli dei re predinastici e protodinastici, oggi sito archeologico chiamato Umm el-Qa’ab.
Ma il simbolo del djed è anche legato alla città di Busiris, l’antica “Djedu”, situata nel delta del Nilo, nel IX distretto del Basso Egitto e non lontano da Damietta. E nell’arcaico nome Djedu ritroviamo la radice djed, quella nel cuore del nostro pilastro che la simbolizzava. Ma che cosa ancora si nasconde nel termine djed? Il vocabolo djedet (ddt) che significava durata, stabilità. Dunque il djed simbolizza, sicuramente, qualcosa di stabile, di duraturo. Non per niente nei Testi delle Piramidi è raffigurato nell’atto di reggere la volta del cielo. E, si sa, il cielo deve durare in eterno. Talvolta anche il disco del sole è sorretto dal pilastro djed. Già nei tempi antichi si soleva raffigurare questo simbolo propiziatorio nei gioielli, affiancato dai geroglifici di salute e vita, a mo’ di formula benigna, usata per recare al beneficiario salute e vita in eterno.
Inoltre il djed era un vero e proprio feticcio, giacché nei geroglifici delle mastabe di Saqqara vengono nominati nell’Antico Regno i “sacerdoti del venerabile djed”. Dunque era oggetto di rituali e cerimonie sacre. L’egittologo Hans Bonnet afferma che nel Nuovo Regno il djed veniva associato a Osiride e alla reliquia della colonna vertebrale del dio. Non si sa, però, quando di preciso questa lettura del djed entrò in uso. In ogni caso proprio ad Abido, nel tempio di Seti I, appare una bellissima pittura policroma che illustra l’innalzamento del djed. Ed ecco come Hans Bonnet descrive la cerimonia:
“Veniva celebrata la sera che precedeva il giorno dell’incoronazione di Horus e della festa trentennale del Sed, in presenza del re e della sua famiglia a Menfi. Il culmine della festa corrispondeva al momento in cui il sovrano, con l’aiuto dei sacerdoti e del gran sacerdote di Menfi, innalzava un pilastro djed tirandolo con una fune, sino a che questo stava diritto.
Sicuramente il djed era un simbolo e un augurio di lunga durata del regno.”
Il rito era inoltre accompagnato da competizioni sportive di lotta. Vi partecipavano uomini della città di Buto, importante centro del Basso Egitto.
Le competizioni simbolizzavano il passaggio di potere da Osiris al figlio Horus, il quale si era rivelato vincitore del rivale Seth.
Alcuni anni fa è stata mossa l’ipotesi che il djed potesse avere delle affinità con le camere di scarico della grande piramide di Cheope situata sull’altopiano di Giza. Raffigurerebbe i piani sovrapposti delle camere di scarico. Ma in tutte le rappresentazioni, senza eccezioni, il djed ha sempre quattro barre orizzontali, non di più. Mentre, se osserviamo la sezione trasversale delle camere di scarico della piramide situate sopra la camera del re, vediamo che i piani sono cinque, perché dobbiamo includere anche quello del soffitto della camera del re stessa.
E poi ci sono due piccoli reperti di avorio, trovati in una tomba della I dinastia portata alla luce nella necropoli di Helwan, che presentano il djed in una nuova luce. Prima di tutto, facendo riferimento alle pitture, siamo abituati a vedere il djed come qualcosa di piatto, bidimensionale. Proviamo invece a immaginarlo tridimensionale e tondo, come una colonna. I due amuleti eburnei di Helwan sono appunto tondi e fanno pensare che il djed, in origine, fosse proprio una sorta di colonna. Quelle che, viste appiattite, sembrano quattro barre sopra il tronco portante, nei due amuleti sono i rami di un albero legati insieme sino a formare un capitello vegetale. I due amuleti djed, quindi, sono praticamente due pilastri tondi ricavati da due alberi, ognuno dei quali ha sulla cima quattro capitelli di rami legati insieme e sovrapposti l’uno all’altro.
Allora, può essere che originariamente si trattasse davvero di una colonna? Vale a dire una colonna tonda che ne racchiudeva altre tre, con quel gusto per la sintesi così tipica dell’arte egizia?
E se il djed rappresenta in realtà quattro colonne, si tratta forse dei quattro pilastri che sostenevano il cielo? I quattro pilastri del cielo erano incarnati dai quattro figli di Horus: Amset, Hapi, Duamutef e Kebekhsenuef. Se questo è vero, si capisce che i quattro figli di Horus, valoroso combattente sempre al servizio del padre Osiride, siano divenuti nel Nuovo Regno la spina dorsale di Osiride stesso, in un’allegoria senz’altro efficace e pregna di significato.
Del resto, Osiride era un dio della fertilità. E quale simbolo, meglio di un albero, avrebbe potuto rappresentarlo? Infine c’è ancora un’ipotesi particolarmente suggestiva. Perché questa colonna tonda con capitelli vegetali sovrapposti doveva essere proprio un albero? Il djed potrebbe anche rappresentare, invece di un albero, un fascio di spighe legate insieme. Quattro fasci di spighe, l’uno sopra l’altro. In questo caso, dobbiamo chiamare in causa un’altra divinità.
Prima di essere collegato a Osiride, il simbolo del djed accompagnava il dio Ptah. Una divinità menfita. Anzi, Ptah era detto il “venerabile djed”. Sembra che l’identificazione del djed con il dio Osiride si sia verificata soltanto in un secondo tempo (vedi: Hans Bonnet). La cerimonia dell’innalzamento del djed, prima di essere celebrata ad Abido, veniva infatti celebrata proprio… a Menfi.
E Ptah era il grande inventore, il fabbro, l’alchimista. Nelle stanze del suo spazio sacro, i sacerdoti praticavano le arti di Ptah. E se il suo djed, la sintesi di quattro fasci sovrapposti di spighe legate insieme, rappresentasse per gli iniziati la trasmutazione alchemica? Le spighe trasformate in oro? Abbiamo visto che il significato geroglifico del djed è “durata”. Ebbene, l’oro non è forse il metallo prezioso, noto sin dai tempi antichi, più duraturo in assoluto? Quello di cui, secondo la credenza egizia, erano fatti i corpi degli dei?
L’egittologo Erik Hornung evidenzia l’abilità degli artigiani egizi nella produzione di materiali sintetici che servivano a sostituire, in gioielli e ornamenti, altri metalli molto cari. Scrive che nel tempio di Dendera, dedicato alla dea Hathor, vi era una stanza adibita a laboratorio, in cui i sacerdoti lavoravano l’oro. Veniva detta appunto “casa dell’oro” (E. Hornung, “Das geheime Wissen der Ägypter”). Si diceva inoltre che, sempre a Dendera e durante i misteri di Osiride, fosse operata la trasmutazione di cereali in oro. Incredibile? Forse. Ma non dimentichiamo che lo stesso termine “alchimia” deriva, attraverso la mediazione araba, dal vocabolo “Kemet” che designava la terra fertile d’Egitto.
Fonte: Storia…Controstoria