La musica come esperienza del sacro.

L’ ascolto di un brano musicale può suggerire, anche in chi è solamente un fruitore di musica e non un tecnico, un idea di armonia e di bellezza.
Nel suo rapporto con l’ essere umano, la musica costituisce un’ esperienza globale, totalizzante, in quanto attiva su diversi livelli dell’essere.
La musica è capace, infatti, di suscitare in chi la ascolta delle emozioni, dei sentimenti: parla quindi alla nostra parte sensibile.
Essa ha infatti il merito di riuscire a sorpassare i meccanismi della logica ordinaria e di parlare ad una parte di noi che nulla ha a che fare con il raziocinio, che è perciò irrazionale e non lineare: una parte di noi che, proprio per questo, ha tratti assai simili a quelli dei meccanismi intuitivi.
Pur avendo poco in comune con la logica ordinaria, essa crea una logica organizzazione di suoni: così facendo, entra inoltre in risonanza (quindi comunica) con la struttura razionale umana.
Ma la musica ha anche una profonda natura simbolica.
L’ antropologo Alan P. Merriam ha evidenziato che il simbolismo in musica opera su quattro piani differenti:

  • il piano costituito da segni e simboli nei testi dei canti;
  • quello del riflesso simbolico dei significati affettivi o culturali;
  • quello del riflesso di altri comportamenti e valori culturali;
  • quello del simbolismo profondo e universale.

Il primo piano è quello costituito dai segni presenti in un testo verbale di una musica cantata:un testo può contenere infatti un messaggio specifico, come la frase ‘bussano alla porta’ o ‘risplende la luce’. Il linguaggio è esso stesso un meccanismo simbolico.
Il secondo piano è quello del valore affettivo o culturale di una musica (ad esempio, il diverso valore che un brano come ‘Finlandia’ di Sibelius assume per un finlandese piuttosto che per un ascoltatore di diversa origine).
La musica può riflettere, in terzo luogo, dei comportamenti sociali o delle strutture culturali: questo è evidente nelle distinzioni, proprie di alcune tradizioni, tra musiche per la danza e quelle per la meditazione; vi possono essere musiche distintive di un clan o di una comunità religiosa.
Infine, l’arte dei suoni può esercitare una funzione simbolica profonda in quanto riflette aspetti universali e fondamentali dell’essere umano.
Merriam ipotizza che attraverso lo studio della musica come comportamento simbolico si possa approfondire una conoscenza dell’uomo e del suo comportamento, in particolare dal punto di vista psico-fisiologico.
La capacità simbolica della musica è ben sintetizzata da una celebre affermazione di Alessandro Manzoni secondo cui:

“La musica non esprime alcuna idea, ne fa nascere a migliaia.”

Proprio l’ impossibilità di rappresentare un’idea o un oggetto (come avviene per la pittura o la scultura) fa sì che nell’ambito musicale non sia possibile istituire una corrispondenza immediata (o almeno univoca) tra un suono significante e una realtà significata.
La musica, in altre parole, poiché non può raffigurare degli specifici oggetti reali, rimanda a significati forzatamente “altri”: qualità, quest’ultima, che è la caratteristica propria del simbolo.
La musica, per così dire, non può far a meno, per sua stessa natura, di essere un simbolo.
Eppure, quando usiamo comunemente i termini di bellezza e di armonia, in associazione ad un fenomeno musicale, noi ci limitiamo per lo più ad intenderli come delle categorie vagamente estetiche.
Proprio la complessità del fenomeno musicale dovrebbe spingerci a considerare questi due termini nel loro valore originario, che aveva a che fare, nelle concezioni antiche e tradizionali con un ambito ontologico nel quale la musica era una vera e propria esperienza del sacro.
Sappiamo che Armonia è termine prettamente greco: presso i Greci, il suono, inteso come vibrazione primordiale, è la forza creatrice, l’ energia che da forma e vita alla materia.
Essa costruisce nuovi mondi laddove prima c’era solo tenebra e silenzio.
Questa forza creatrice attribuita al suono primordiale è comune a molti miti di creazione antichi; nel Rig-Veda, si afferma che gli dei crearono la luce e il mondo con i loro canti.
Nella ‘Chandogya Upanishad ‘ il suono stesso genera la manifestazione di dio.
Analogamente, nella cosmologia giavanese, il creatore viene generato da un essere superiore invisibile, che si manifesta solo attraverso il suono delle campane.
Nei miti di creazione del ‘Popol Vuh maya’, gli dei crearono e distrussero esseri sempre differenti finchè non diedero vita all’uomo, unica creatura ad avere il merito di riuscire a ricambiarli con i propri canti di lode.
Gli esempi sono innumerevoli, provenienti da culture e latitudini diverse: essi testimoniano un’idea di vibrazione creatrice che oggi sembra perfino confortata da alcune singolari ipotesi e scoperte della scienza moderna, come la teoria del Big Bang o la scoperta della radiazione cosmica di fondo.
Il legame musicale tra uomini e divinità è evidente anche nell’invenzione della musica e degli strumenti musicali miticamente attribuite agli dei.
Fu infatti il dio egizio Thot, secondo Diodoro Siculo, ad inventare quell’arte sacra; e fu Osiride a sfruttarla come strumento di civilizzazione del proprio popolo.
Strumento inventato dalla dea Iside e a lei sacro era il sistro.
Questo era uno strumento in legno o metallo il cui suono era prodotto dallo scuotimento di lamelle flottanti: nei riti isiaci veniva suonato con un ritmo di tre scosse consecutive ed accompagnava le processioni rituali, come quella descritta nell’ “Asino d’oro” di Apuleio.
È importante sottolineare come questi strumenti venissero realizzati dall’uomo ad imitazione di quelli costruiti dagli dii: in questa ottica, decade la vecchia idea secondo la quale gli strumenti nacquero ad imitazione della voce umana; essi erano, semmai, elementi ulteriori di connessione dell’ uomo con Dio, al pari dell’ arte musicale alla quale contribuivano col loro suono.
A quanto si narra, proprio dalla sapienza egizia Pitagora trasse gli insegnamenti che resero grande la propria scuola iniziatica: centrale, in essa, è proprio la concezione di Armonia.
Presso i Pitagorici, infatti, il moto stesso dei pianeti creava delle melodie che s’intersecavano in una mirabile polifonia che, accordandosi al suono primigenio, costituivano l’Armonia universale.
Di questo concetto (che, detto per inciso, resterà vivo a lungo in tutto l’Occidente e che sarà ripreso anche da Copernico) i Pitagorici sono stati i primi a dettare leggi e relazioni.
Secondo la tradizione, Pitagora, usando il monocordo, tramite l’osservazione sperimentale, aveva scoperto che i rapporti tra la lunghezza della corda vibrante di quello strumento e delle sue frazioni erano esprimibili da rapporti numerici.
Dato un suono fondamentale, dividendo la corda in due e facendone vibrare solo una metà si aveva un suono all’ottava superiore; facendone vibrare i 2/3 si aveva un suono alla quinta; mettendone in vibrazione i 3/4 si otteneva un suono alla quarta.
Questi rapporti sono non soltanto dei rapporti semplici ma anche i più semplici rapporti possibili: tali rapporti sono gli stessi che intercorrono tra i numeri della Tetraktis, simbolo sacro per i Pitagorici.
Dividendo la corda in base a numeri consecutivi si ottenevano delle armoniose consonanze: al contrario, due note scelte a caso, prodotte contemporaneamente, davano per risultato un suono sgradevole, dissonante.
I Pitagorici si domandarono: se l’armonia musicale si poteva esprimere tramite numeri, perché ciò non sarebbe dovuto accadere per l’universo intero? Essi conclusero così che tutti gli elementi del cosmo dovevano le loro proprietà alla natura dei numeri.
L’ universo, nella concezione pitagorica, appare così un’ entità pulsante, regolata da leggi perfette, in cui tutte le cose si rapportano alle altre in modo armonico e dove l’Armonia delle Sfere è l’armonia dell’anima, la sua musica.
Partendo dal numero come archetipo, attraverso lo studio del pentagono e del pentagramma iscritto all’interno, i pitagorici trovarono la sezione aurea; la divina proporzione che, presente in natura sarà fonte di ispirazione nell’arte e matrice per l’edificazione delle più importanti costruzioni sacre nel mondo.
Non è certo un caso che il ricorso alla sezione aurea fosse il sistema segreto utilizzato da Stradivari per disegnare le ‘F’ sul piano armonico dei suoi violini, per ottenere dai propri stru-menti l’inconfondibile suono.
Altra mirabile intuizione di Pitagora è l’idea che l’ottava musicale sia espressione della relazione esistente tra spirito e sostanza.
Infatti per ottenere l’ottava superiore ad un suono originario si divide una corda in due parti uguali; il suono prodotto, sebbene più acuto, resta allo stesso tempo in stretta relazione con la nota più grave di partenza: tale fenomeno costituisce il simbolo tangibile della massima ermetica ‘ciò che è in Alto è come ciò che è in Basso’.
Oggi se possiamo trovare risibili alcune ipotesi più stravaganti dei pitagorici dobbiamo riconoscere che l’impostazione di fondo della loro dottrina non è poi molto lontana da quella espressa da Einstein con l’affermazione: ‘la matematica non è che un mezzo per esprimere le leggi che governano i fenomeni’.
In fondo, ancora nel 1600 Keplero credeva in un Dio geometra, architetto supremo ma anche musico, creatore dell’universo secondo un perfetto progetto matematico e precise regole musicali: in tal modo, l’astronomo, matematico e musicista tedesco non faceva altro che riprendere e sviluppare il concetto pitagorico dell’armonia delle sfere.
Nel suo trattato ‘Harmonices Mundi’ del 1619, struttura del sistema solare ed accordi consonanti, così come moto orbitale dei pianeti e musica erano facce diverse di un tutto matematicamente ordinato. Keplero cercò di stabilire specifiche corrispondenze tra leggi che governano il moto dei corpi celesti e regole dell’armonia classica.
Così se da un lato, in astronomia, si adoperò a far corrispondere il moto e le distanze dei pianeti ai cinque poliedri regolari, dall’altro, in musica, stabilì un parallelo tra intervalli consonanti e poligoni regolari iscritti in una circonferenza.
Con un approccio così estemporaneo, almeno per l’occhio moderno, ottenne un grandissimo risultato scientifico, la sua terza legge, che pone in proporzione di sesquialtera (3:2) le potenze degli assi maggiori delle ellissi planetarie e dei periodi orbitali.
Questo rapporto è il medesimo che caratterizza l’intervallo musicale di quinta perfetta ed è quello che regge l’intero sistema musicale pitagorico: allo stesso tempo, è una delle relazioni di tempo più antiche … E forse non è un caso che proprio l’inserimento del concetto di tempo nei rapporti tra figure geometriche e intervalli musicali fu l’idea che permise a Keplero di calcolare le distanze dal sole dei pianeti e i tempi di percorrenza delle orbite.
Come vediamo, l’idea di Armonia diventa, in tali concezioni, qualcosa di profondamente connesso con la natura delle cose: e la musica è l’arte sacra che permette di svelare i nodi che legano insieme l’intero Universo manifestato.
Fin dal mito, in Grecia l’armonia è connessa con la bellezza: Armònia, figlia di Ares e Afrodite, riceve come dono di nozze da Efesto una collana capace di dare eterna bellezza a chiunque la indossi.
L’opera d’arte, in senso tradizionale, è un insieme di elementi che costituiscono la copia e la riproduzione di un ordine immanente al creato: l’ordine e l’insieme dei fattori che rende possibile l’esistenza stessa dell’oggetto.
Per converso, la bellezza dell’oggetto testimonia di come l’ordine vi si rifletta con maggiore o minore perfezione.
È questa idea che fece esclamare a Plotino:

“Infelice è colui che non consegue il Bello, il solo Bello. Ciascuno diventi bello e simile a Dio, se intende contemplare e Dio e il Bello”.

È necessario qui precisare che la bellezza di cui stiamo parlando niente ha a che fare con la concezione moderna del bello legata all’estetica ed al gusto, quindi a valori profondamente soggettivi.
Nella filosofia platonica la riflessione sulla bellezza ha un ruolo centrale: la bellezza riposa su un aspetto strutturale rappresentato dalla forma, che è l’essenza delle cose.
La forma è l’essenza di un oggetto in virtù del fatto che testimonia la presenza di un’idea nell’oggetto stesso.
In quanto tale, la forma istituisce una relazione tra l’ oggetto e la sua radice metafisica.
È degno di nota il fatto che questo tipo di relazioni sia esprimibile attraverso numeri e proporzioni, capaci di configurare una pluralità di enti geometrici intelligibili, costruiti a partire da regole, canoni, il cui rispetto assicura il conseguimento della perfezione, della bellezza ideale.
La bellezza di una cosa esprime quindi la giusta misura, l’esatta proporzione, la vera corrispondenza tra l’idea, rappresentata dal mondo degli archetipi, e la sua raffigurazione terrena: e in ciò risiede la sua virtù, intesa come la intendevano i greci, ovvero come la perfetta attuazione dell’essenza di ogni cosa.
È solo allora che ogni cosa è propriamente giusta e perfetta.
La musica come componente essenziale della natura delle cose, prima ancora che come pratica musicale.
Il mondo degli archetipi trova una sua peculiare possibilità di manifestazione nella realtà sensibile per il tramite delle forme la cui bellezza, unica tra le forme intelligibili, è percepita non solo dalla vista fisica, ma altresì dagli occhi dello spirito.
È grazie a questo tramite che l’intuizione guida l’uomo dal molteplice verso l’Uno, permettendogli di risalire alla comprensione del Creato.
In questa riflessione filosofica, per Platone la Bellezza emerge come uno ‘sfavillio luminoso’, come la capacità che ha il soprasensibile di risplendere nel sensibile e consente all’uomo di sperimentare la Verità: ‘il Bello è lo splendore del vero’. Ecco quindi che ricercare la bellezza, cioè l’ordine, l’armonia e la proporzione permette all’uomo di ricongiungersi al principio Divino.
Quella luminosità cui Platone fa riferimento è l’essenza della bellezza, e la collega al Logos, alla vibrazione primordiale e quindi al Suono-Luce.In Platone la musica è intesa come un’arte veramente sacra: è fondamentale la sua distinzione tra una musica reale, condannata nella ‘Repubblica’ quando è apportatrice di distrazioni, di piaceri o di dolore, e una musica ideale, superiore, divina in quanto specchio dell’Armonia universale. L’ epoca in cui vive Platone è tuttavia un’epoca di trasformazioni profonde della società greca cui corrispondono profonde trasformazioni nell’ambito della musica tradizionale: si introducevano nuovi sistemi scalari e si andava progressivamente abbandonando il cosiddetto sistema dei nomoi.
Nell’accezione più ampia ‘nomos’ significa ‘legge’, ‘modello’ ed in particolare definisce la composizione musicale antica, che è legge universale, perché ripropone il modello immutabile dell’armonia celeste. I nomoi erano un insieme di leggi, ma anche di formule melodiche, tra le quali
si giocava tutta l’azione compositiva dei musicisti, almeno fino al IV secolo.
All’uso dei nomoi si abbinava poi l’utilizzo di scale (modi) che, nella trattatistica, sono sempre costituite da 4 suoni disposti in senso discendente (cioè provenienti, simbolicamente, dall’alto, dal Principio), chiamati tetracordi che costituiscono, se accoppiati, scale di 7 o 8 suoni, le cosiddette armonie.
A partire dal IV secolo, per opera di autori come Timoteo di Mileto o dello stesso Euripide, si procede verso un abbandono graduale dei nomoi.
Parallelamente, si introducono scale sempre più complesse, tali da incarnare il portato di passioni e di espressività delle tragedie euripidee, che certo tradivano la concezione platonica di musica ‘ideale’.
A causa della tardiva introduzione nel mondo greco di sistemi di notazione in un’ arte che, come arte Tradizionale, era naturalmente trasmessa per via orale, non ci restano oggi che poche te-stimonianze di tali musiche. Una delle più antiche, di un’epoca comunque posteriore alla rivoluzione del IV secolo, Ë l’inno al Sole di Mesomede di Creta, poeta e compositore del I secolo a.C.
Come si evince dalle concezioni fin qui presentate, in senso tradizionale la musica viene a riguardare aspetti dello Spirito e riferimenti ad una conoscenza sacra, che la distinguono profondamente dalla musica così come viene comunemente intesa oggi, nei suoi aspetti più tecnici storici e nella sua funzione di piacevole intrattenimento.
L’ arte dei suoni, così come era intesa nei tempi antichi da greci, egizi o cinesi, cioè una musica ‘intellettuale’ e ‘celeste’, era a ben vedere il risultato di principi che nulla avevano a che fare con la teoria o la pratica moderne della musica.
La musica era considerata strettamente connessa, come dice Fabre de Olivet, a quel sublime versante della scienza avente per oggetto la contemplazione della natura e la conoscenza delle immutabili leggi dell’universo.
Giunta al più alto grado di perfezione tale scienza portava una sorta di legame analogico tra il sensibile e l’intelligibile diventando un mezzo di comunicazione tra i due mondi.
Insomma, l’arte musicale era essenzialmente speculativa e capace di ispirare agli uomini l’amore per le virtù e spingerli alla pratica dei loro doveri.
Pensiamo agli insegnamenti di Confucio, il quale considerava la musica come il sistema più sicuro per migliorare i costumi di un popolo, e pensava che l’indifferenza nei confronti di quest’arte sarebbe stata il segno sicuro del decadimento dell’impero.
Se intendiamo l’ambito sacro come un ambito, separato e dedicato, nel quale si attua una comunicazione tra la manifestazione e il Principio, è facile capire come la musica abbia un ruolo essenziale nel favorire tale comunicazione.
La musica è infatti una delle poche arti, assieme alla poesia e alla danza (arti che erano comprese nel significato del termine greco mousikè) che si sviluppa nel tempo.
Meglio, essa crea un tempo a sé stante, al pari della poesia (con le sue strutture metriche) e la danza (con il tempo dei suoi movimenti).
Le strutture metriche musicali tracciano e ricavano, nello scorrere del tempo ‘ordinario’ (quello quantitativo, cronologico), un tempo parallelo nel quale si sviluppa il ritmo musicale.
Il compositore (e l’esecutore) sceglie il tempo della propria composizione, la ‘cadenza’ del passo col quale camminare: con questa scelta, egli automaticamente si pone al di fuori del tempo ‘ordinario’. La musica ricava allora nel tempo ‘ordinario’ un tempo a sé stante, organizzandone la struttura.
Allo stesso modo, un rito ricava ed organizza un tempo ‘sacro’, fuori da quello dell’ordinarietà.
Parallelamente, come il rito consacra altresì uno spazio, la musica implica un ‘riempimento’ e, quindi, una ‘appropriazione’, tramite il fenomeno sonoro, dello spazio acustico.
Inoltre, lo rende con ciò ‘diverso’ in quanto non più popolato dai suoni (‘rumori’) della quotidianità:
anche considerando questo aspetto semplicemente sul piano fisico, si apprezzerà come nello spazio acustico si attui una trasformazione, un’alterazione ad opera del fenomeno sonoro.
L’onda sonora è infatti un’entità fisica: propriamente, è un’oscillazione dotata di un proprio tempo (misurabile in Hertz), che si propaga ad una certa velocità nello spazio.
Muovendosi nello spazio essa di fatto lo altera, invadendolo di sé.
In questo atto di ‘appropriazione’ e di ‘trasformazione’ di spazio e tempo attuata dal fenomeno sonoro, analogamente al rito (che per sua essenza, in fondo, è anche sonoro), vale la pena tornare ad esplorare una volta di più il significato del termine latino ‘sacer’: la sua radice veicola l’idea di ‘ciò che appartiene al dio’, o meglio ‘ciò che dall’uomo è destinato (o dedicato) al dio’.
Tutto ciò sembra implicare una tensione dell’uomo verso il sovrumano proprio attraverso l’abbandono di modalità di esistenza ‘ordinarie’ per ricavare, ‘dedicare’ (idea di consacrazione) ed organizzare un tempo e uno spazio differenti (sospendendo con ciò il tempo e lo spazio ‘normali’), in cui poter attuare i meccanismi di comunicazione col divino.
In questo senso, la musica è l’arte che meglio permette una simile comunicazione: la musica ha una funzione profonda in quanto, riposando sui concetti cardine di Armonia e Bellezza, permette l’esperienza del sacro trascendendo la dimensione ordinaria per proiettare l’individuo verso il divino.
Johann Sebastian Bach, è stato il compositore la cui musica forse più di altre si associa all’idea comune di armonia e di bellezza, e che svolse la sua attività costantemente nelle adiacenze del Sacro.
Un compositore che in tutta la sua esistenza ebbe un indomito desiderio di ricerca e che, forse non tutti lo sanno, aderì in tarda età ad una ‘Società per corrispondenza di scienze musicali’, fondata nel 1738 tra gli altri da Lorenz Christoph Mizler, il cui scopo era quello di studiare dal punto di vista scientifico le diverse forme musicali e le loro implicazioni con la matematica: i membri di tale società dovevano essere musicisti esperti in matematica e in filosofia, ed erano tenuti a presentare ogni anno un lavoro di carattere scientifico-musicale.
All’associazione aderirono alcuni dei più importanti compositori dell’epoca, tra i quali ricorderò Georg Philipp Telemann, Georg Friedrich Haendel e, come ventesimo ed ultimo membro, anche Leopold Mozart, il padre di Wolfgang.
Se pure tale società non aveva all’apparenza un carattere iniziatico, tuttavia Bach compose per la propria ammissione un’opera che in qualche modo ha in sé degli aspetti esoterici e testimonia in ogni caso la concezione quasi pitagorica che il suo autore aveva dell’arte musicale: si tratta del triplo Canone enigmatico a sei voci, raffigurato nel celebre ritratto di Haussmann che lo stesso Bach regalò all’associazione di Mizler all’atto della sua ammissione.
È un brano che rivela una sapienza profonda, tale da mescolare assieme armonia e bellezza, e che afferma una funzione fondamentale della musica: una funzione per la quale quest’arte per sua natura non può assolvere al ruolo di mero diletto, bensì ad una operazione di costruzione del Tempio dello Spirito attraverso la sua capacità di connessione col trascendente.
In questo, la musica si fa davvero esperienza del sacro.

Scritto da: Andrea Severi

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