Il tempo degli Angeli ‘caduti’.
Oggi vi propongo una corposa ma avvincente lettura in cui Andrew Collins (autore de ‘Gli ultimi Dei’) ipotizza che la nostra civiltà sia stata originata dall’incontro con una razza di angeli umani conosciuti come Vigilanti o Nephilim, dotati di una cultura straordinariamente avanzata, avvenuto in oriente alla fine dell’ultima era glaciale.
La traduzione e la cura di questo piccolo trattato è di Adriano Forgione.
Vi auguro buona lettura.
_ _ _
Di solito associamo gli angeli con meravigliosi dipinti preraffaelliti o rinascimentali, con statue che ornano l’architettura gotica o con esseri soprannaturali che intervengono nella nostra vita nel momento del bisogno. Negli ultimi 2.000 anni è stata questa l’immagine stereotipica promossa dalla Chiesa cristiana. Ma chi sono gli angeli? Da dove vengono? E cosa hanno significato per lo sviluppo delle religioni organizzate?
Molti vedono il Pentateuco, i primi cinque libri dell’Antico Testamento, come una narrazione disseminata di angeli che appaiono a virtuosi patriarchi e a profeti visionari. Ma non è affatto così. Ci sono i tre angeli che vanno da Abramo, mentre siede all’ombra di un albero nella Piana di Mamre, per annunciargli che sua moglie Sara darà alla luce un figlio che chiameranno Isacco. Ci sono i due angeli che visitano Lot e la moglie a Sodoma poco prima della distruzione della città. C’è l’angelo che lotta tutta la notte con Giacobbe in un luogo chiamato Penuel, o quelli che vede salire e scendere da una scala che va dal cielo alla terra. Oltre a questi esempi c’è ben poco, e quando appaiono gli angeli la narrativa si fa vaga e scarsamente chiara riguardo a ciò che sta accadendo. Ad esempio, sia nel caso di Abramo che in quello di Lot, gli angeli in questione sono descritti come semplici “uomini”, che si siedono e mangiano come qualsiasi mortale.
L’influenza dei Magi
Gli angeli divennero parte integrale della religione ebraica solamente dopo il ritorno dall’esilio di Babilonia, intorno al 450 a.C. E cominciarono ad apparire con frequenza nella letteratura religiosa giudaica ancora più tardi, nel 200 a.C. circa. Il Libro di Daniele e il Libro di Tobia contengono enigmatici racconti di esseri angelici che hanno nomi individuali, apparenze specifiche e gerarchie prestabilite. Queste radiose figure avevano un’origine non giudea. Tutto indica che fossero alieni, importati da un regno straniero, nello specifico dalla Persia.
Il Paese che oggi conosciamo come Iran potrebbe non sembrare sulle prime la fonte più probabile per gli angeli, ma è un fatto che gli ebrei esiliati fossero pesantemente esposti alle credenze del luogo dopo che Babilonia fu conquistata dal re persiano Ciro nel 539 a.C. Queste tradizioni comprendevano non solo lo Zoroastrismo, chiamato così dal profeta Zoroastro o Zarathustra, ma anche la molto più antica religione dei Magi, un’elitaria casta sacerdotale della Media, nel Nordovest dell’Iran. Costoro credevano in un pantheon di esseri soprannaturali chiamati ahura, letteralmente “coloro che splendono”, e deva-ahura caduti in disgrazia a causa della corruzione che hanno portato all’umanità.
Anche se in seguito vennero messi al bando dalla Persia, l’influenza dei Magi sulle credenze, i costumi e i rituali dello Zoroastrismo era profonda. Inoltre, non vi è alcun dubbio che il Magismo, da cui provengono termini come mago, magia o magico, sia alla base della credenza ebraica non solo nelle gerarchie angeliche, ma anche nelle legioni degli angeli caduti – un argomento la cui quintessenza si trova in un’unica opera – il Libro di Enoch.
Il Libro di Enoch
Compilata in diverse fasi tra il 165 a.C. e l’inizio dell’era cristiana, quest’opera cosiddetta apocrifa (cioè falsamente attribuita) ha come tema principale la storia della caduta degli angeli. Ma non di angeli qualsiasi, bensì di coloro che erano conosciuti come Irin (Ir è la forma singolare), che significa “coloro che vigilano” o semplicemente “vigilanti”. Il Libro di Enoch narra la storia di come 200 angeli ribelli, o Vigilanti, decisero di trasgredire le leggi celesti, “scendere” nelle pianure e prendere moglie tra i mortali. Il luogo di questo evento sarebbe stata la cima dell’Hermon, un posto mitico generalmente associato con le pendici nevose del Monte Hermon, nella catena dell’Antilibano, a nord dell’odierna Palestina. I 200 ribelli erano coscienti delle implicazioni della loro trasgressione, in quanto si accordarono per pronunciare un giuramento secondo il quale il loro leader, Shemyaza, si sarebbe fatto carico della colpa se il corso degli eventi, già condannato in partenza, avesse preso la terribile piega che in effetti assunse. In seguito alla loro discesa alle terre pianeggianti, i Vigilanti si dedicarono ai piaceri terreni con le loro “mogli”, e attraverso queste unioni nacque una generazione di giganti chiamata nephilim, parola ebraica che significa “coloro che sono caduti”, tradotta in greco con gigantes, “giganti”.
Segreti celesti
Mentre approfittavano delle donne, i 200 angeli ribelli impiegavano il proprio tempo impartendo i segreti celesti a coloro che volevano ascoltarli. Uno di loro, chiamato Azazel, si dice abbia “insegnato agli uomini a forgiare le spade, e i coltelli, e gli scudi, e le corazze, e gli fece conoscere i metalli (della terra) e l’arte di lavorarli”, riferendosi al fatto che i Vigilanti avessero insegnato agli umani l’uso dei metalli. Egli li ha anche istruiti nella creazione di braccialetti e ornamenti, e ha mostrato loro l’uso dell’antimonio, un metallo bianco e fragile utilizzato nell’arte e nella medicina. Alle donne Azazel insegnò l’arte di “abbellire le palpebre”, e l’uso di “ogni tipo di pietra preziosa” e “di tinture coloranti”, presupponendo che l’uso del make-up e di gioielli era sconosciuto prima di allora. In aggiunta a questi crimini, Azazel venne accusato di insegnare alle donne come provare piacere sessuale e indulgere nella promiscuità – cosa che agli occhi dei relatori ebraici era indicibilmente blasfema.
Altri Vigilanti vennero accusati di aver rivelato ai mortali la conoscenza in ambiti più scientifici, come l’astronomia, la scienza delle nuvole (o meteorologia), i “segni della terra”, presumibilmente la geodesia e la geografia, oltre che i “segni”, o il passaggio, dei corpi celesti, come il Sole e la Luna. Il loro leader, Shemyaza, si crede abbia donato la conoscenza degli “incantesimi, e il taglio delle radici”, un riferimento alle arti magiche deprecate dalla maggioranza degli ebrei ortodossi. Uno di loro, Penemu, diffuse l’uso del “dolce e dell’amaro”, sicuramente quello di erbe e spezie nei cibi, mentre istruiva gli uomini sull’utilizzo di “inchiostro e carta”, implicando che i Vigilanti introdussero anche le prime forme di scrittura. Molto più inquietante è Kasdeya, che si dice abbia mostrato “ai figli degli uomini tutti i colpi malvagi degli spiriti e dei demoni, e i colpi dell’embrione nel feto, cosicché vada perduto”, in pratica ha insegnato alle donne ad abortire.
Quanto citato sopra fa sorgere una domanda fondamentale, ossia il motivo per cui gli angeli avrebbero dovuto possedere tali conoscenze, prima di tutto. Non ci si aspetterebbe mai che queste cognizioni siano necessarie a un angelo, a meno che non sia anch’egli umano.
Secondo me, questa rivelazione di conoscenza e saggezza sembra l’atto di una civiltà estremamente avanzata che passa alcuni dei propri segreti a una cultura meno evoluta che sta ancora lottando per comprendere i principi alla base della vita.
Molto più sconcertanti sono le azioni dei nephilim ormai adulti, in quanto il libro prosegue: “E quando gli uomini non poterono più dar loro sostentamento, i giganti si rivolsero contro di loro e divorarono l’umanità, e cominciarono a peccare contro gli uccelli, e le bestie, e i rettili, e i pesci, e a divorarsi l’un l’altro le carni, e a bere il sangue. Allora la terra lanciò l’accusa contro i senza legge”.
A quel punto le urla di disperazione dell’umanità erano state ascoltate distintamente dagli angeli, o Vigilanti, che erano rimasti leali al Cielo. Uno a uno vennero inviati da Dio contro i Vigilanti ribelli e contro la loro prole, i nephilim, descritti come “i bastardi e i reietti, e i figli della fornicazione”. Il loro leader, Shemyaza, fu legato e appeso a testa in giù, e la sua anima fu condannata a diventare le stelle della costellazione di Orione. Azazel, secondo in comando, fu legato mani e piedi e gettato per l’eternità nell’oscurità di un deserto chiamato Dudael. Sopra di lui vennero poste “pietre grossolane e acuminate”, e lì dovrà rimanere sino al Giorno del Giudizio, quando verrà “gettato nel fuoco” per i suoi peccati. A causa della loro parte nel corrompere gli esseri umani, i Vigilanti ribelli vennero forzati ad assistere al massacro dei loro stessi figli prima di essere gettati in una sorta di prigione celeste, descritta come un “abisso di fuoco”.
A questo punto entra in scena il patriarca Enoch che, per qualche inesplicabile ragione, dovette intercedere a favore dei ribelli incarcerati. Egli tentò di riconciliarli con gli angeli del Paradiso, ma fallì miseramente. Durante la vita di un suo pronipote, Noè, il Diluvio Universale coprì tutte le terre emerse e distrusse le tracce rimanenti della razza di giganti. Qui finisce la storia dei Vigilanti.
Il Libro di Enoch, la cui origine è molto discussa, era stato una fonte vitale riguardo alla loro esistenza, ma avevo bisogno di altre testimonianze, meno vaghe, di questa razza di esseri umani.
A quel punto si verificò qualcosa di importante.
Il legame con il Mar Morto
Gli accademici ebraici hanno notato da lungo tempo delle similitudini tra alcuni degli insegnamenti più reazionari del Libro di Enoch e i libri sacri degli esseni – una fondamentale, e molto pia, comunità religiosa che secondo gli studiosi classici viveva sulla sponda occidentale del Mar Morto. Questo legame è stato rinforzato dopo il 1947, quando si scoprì che tra i rotoli del Mar Morto, che oggi vengono considerati come scritti dagli esseni, vi erano vari frammenti di testo appartenenti a diverse copie del Libro di Enoch, confermando non solo la veridicità del libro del patriarca, ma anche il fatto che era tenuto in grande stima dalla comunità essane di Qumran, forse all’origine della sua scrittura dopo il 165 a.C. Cosa molto più importante, gli studiosi ebraici hanno iniziato a individuare alcuni testi precedentemente sconosciuti che si avvicinano molto alle scritture enochiane all’interno del corpus del Mar Morto, compresi alcuni ulteriori riferimenti ai Vigilanti e alla loro progenie, i nephilim. Molti di questi frammenti sono stati identificati da J.T. Milik, esperto degli scritti del Mar Morto, come estratti di un’opera perduta chiamata il Libro dei Giganti. In precedenza si avevano notizie di questo testo solamente da isolati riferimenti in testi religiosi appartenenti ai manichei, una corrente eretica gnostica che si è fatta strada dall’Europa all’Asia, sino in Tibet e in Cina, dal III sec. d.C. in poi.
Il Libro dei Giganti continua la storia raccontata nel Libro di Enoch, raccontando come i nephilim hanno affrontato la consapevolezza del fatto che la loro imminente distruzione era dovuta alle nefandezze dei loro padri Vigilanti. La lettura di questa antica opera dà al lettore una visione più compassionevole dei nephilim, che si trovano coinvolti come innocenti protagonisti in un dilemma al di là del loro controllo.
Ma, al di là di questo frammentario trattato, altri testi enochiani sono venuti fuori dai papiri del Mar Morto, che, secondo me, hanno la stessa importanza. Uno di questi è il Testamento di Amram.
Amram era il padre del legislatore Mosè, anche se ogni inquadramento temporale biblico è irrilevante al racconto. La cosa più significativa è l’apparizione di due Vigilanti in una sua visione durante un sogno, in quanto il testo abbondantemente ricostruito recita così: “[Ho veduto dei Vigilanti] nella mia visione, la visione del sogno. Due (uomini) si battevano per me, dicendo… e avendo una grande contesa su di me. Chiesi loro ‘Chi siete, voi che avete tanto po[tere su di me?’. Mi risposero: ‘Ci][è stato conferito il po]tere di governare tutta l’umanità’. Mi dissero: ‘Scegli, chi di no[i deve governar(ti)?’. Allora alzai gli occhi e guardai.][Uno] di loro aveva un aspetto terr[i]bile, [come un s]erpente, il [suo] m[ant]o multicolore tuttavia molto scuro… [E io guardai ancora], e… nel suo aspetto, il suo volto come di vipera, e [logorante…][eccessivamente, e i suoi occhi…]”.
Il testo identifica quest’ultimo Vigilante con Belial, il Principe dell’Oscurità e Re del Male, mentre il suo contendente ci viene rivelato essere Michele, il Principe della Luce, chiamato anche Melchizedek, Re di Giustizia. Tuttavia, è stato l’aspetto spaventoso di Belial ad attrarre la mia attenzione, in quanto era terrificante da guardare e sembrava un “serpente”, lo stesso sinonimo usato per descrivere sia i Vigilanti che i nephilim. Se il frammento testuale fosse finito qui, non avrei mai saputo perché era stato usato dallo scriba giudeo in questione. Fortunatamente, il testo prosegue affermando che il Vigilante aveva il volto, o viso, “come di vipera”. Visto che indossava un mantello “multicolore, tuttavia molto scuro”, ho dovuto presumere che avesse un aspetto antropomorfo, cioè una forma umana.
Volto di vipera…
Che cosa poteva significare?
Quante persone conosciamo con il “volto come di vipera”?
Per più di un anno non sono riuscito a dare una soluzione soddisfacente a questa curiosa metafora.
Poi, improvvisamente, mi è venuta in mente una semplice risposta. Ho cercato di visualizzare l’aspetto di una persona con il “volto da vipera”: la faccia lunga e stretta, zigomi pronunciati, mascelle allungate e occhi a fessura, come quelli di molte popolazioni dell’Estremo Oriente. Poteva essere questa la soluzione del motivo per cui i Vigilanti e i nephilim venivano descritti come serpenti che camminano? Sembrava una possibilità come un’altra, anche se poteva anche essere che la connessione con i serpenti fosse dovuta alle loro arti magiche, o forse anche alle loro movenze o all’apparenza generale.
L’aspetto di piume
Un altro importante riferimento all’apparenza dei Vigilanti viene dai cosiddetti Segreti del Libro di Enoch. Conosciuto dagli esperti come Enoch 2, o Enoch Slavo, era una sorta di seguito dell’opera originale. Scritto probabilmente in ebraico nel I sec. d.C., venne tradotto anche in greco, ma è giunto a noi grazie a cinque manoscritti serbi e russi, il più antico dei quali risale al XV sec. d.C. Il passaggio che segue si riferisce all’arrivo inaspettato di due Vigilanti mentre Enoch sta riposando nel suo letto: “E mi apparvero due uomini molto alti, come non ne ho mai visti sulla terra. E i loro visi risplendevano come il sole, e i loro occhi bruciavano come lampade, e dalle loro labbra fuoriuscivano le fiamme. I loro abiti avevano l’aspetto di piume, i loro piedi erano purpurei, le loro ali erano più lucenti dell’oro, le loro mani più bianche della neve. Essi stavano in capo al mio letto e mi chiamarono per nome”. La pelle bianca (spesso arrossata, “rossa come una rosa”), la statura alta e la radiosità del viso “come il sole” spesso ricorrono in connessione con l’aspetto degli angeli e dei Vigilanti nella letteratura enochiana e del Mar Morto. Tuttavia, qual è il significato del riferimento al loro vestiario con “l’aspetto di piume”? Potrebbe essere legato in qualche modo con il “manto” del Vigilante Belial del racconto di Amram, che era “multicolore, tuttavia molto scuro”, esattamente l’effetto che ci si potrebbe aspettare da un mantello di piume nere, come quelle dei corvi o degli avvoltoi? Nonostante l’arte cristiana abbia sempre ritratto gli angeli con le ali, questa tradizione non risale a prima del III o IV sec. d.C. Prima di allora i veri angeli (anche se i Cherubini e i Serafini avevano ali multiple) avevano l’aspetto di “uomini”, una situazione che spesso portava i traduttori ad aggiungere ali alle descrizioni di angeli. Questo è stato sicuramente il caso della citazione presa da Enoch 2, che è stata trascritta diverse volte durante i primi anni della cristianità.
Tenendo questa osservazione ben in mente, ho trovato l’affermazione concernente gli abiti dei Vigilanti che avevano “l’aspetto di piume” estremamente rivelatori. Ci permette di intravedere il retroterra culturale dello scriba che ha messo per iscritto questo racconto, in quanto, avendo aggiunto delle ali alla descrizione dei due uomini, perché preoccuparsi di dire che indossavano abiti di piume? Sicuramente questa confusione tra ali e mantelli di piume potrebbe essere nata dal bisogno di dare ai Vigilanti un aspetto angelico più appropriato all’epoca.
Sciamani-uccello
In qualche modo sapevo che quella era la chiave di questo strano mistero, in quanto la cosa implicava che se i Vigilanti erano davvero umani, allora avrebbero potuto ornarsi con indumenti di quella natura come parte del loro abito cerimoniale. L’uso di forme totemiche, come animali e uccelli, è stato sempre il dominio dello sciamano, “colui che cammina nel mondo degli spiriti” per le comunità tribali. Per molte culture primitive l’anima prendeva la forma di un uccello per volare da questo mondo a un altro, e tale è il motivo per cui veniva dipinta in questo modo nell’antica arte religiosa. Quest’idea può essersi sviluppata dalla credenza molto diffusa secondo cui il volo astrale potesse essere effettuato usando delle ali eteree, come quelle di un uccello, cosa che quasi certamente ha ispirato l’idea che gli angeli, in quanto messaggeri di Dio, dovevano essere ritratti con le ali nell’iconografia cristiana.
Per rinsaldare questo legame mentale con il proprio animale totemico, gli sciamani adornavano il loro corpo con un mantello di piume e passavano lunghi periodi studiandone il più piccolo movimento. Entravano nel suo habitat naturale e osservavano ogni aspetto della sua vita – il metodo di volo, le abitudini alimentari, i rituali di corteggiamento e il comportamento a terra. Comportandosi in questo modo speravano di diventare come gli uccelli, una personalità alternativa adottata in maniera quasi permanente. Lo sciamanismo totemico è più o meno dipendente dagli animali e dagli uccelli presenti nella località occupata dalla tribù di provenienza, ma il principio di base è sempre lo stesso – il mantello serve a ottenere il volo astrale, l’illuminazione divina, la comunicazione con gli spiriti e il raggiungimento di una conoscenza e di una saggezza ultraterrena.
Potevano, quindi, i Vigilanti e i nephilim essere uomini-uccello?
La risposta è quasi sicuramente positiva, poiché nel testo del Mar Morto chiamato Libro dei giganti, i nephilim figli dell’angelo caduto Shemyaza, Ahya e Ohya, hanno un’esperienza di visione in sogno in cui visitano un mondo-giardino e vedono 200 alberi che vengono abbattuti dagli angeli del Paradiso. Non capendo il significato di tale allegoria, sottopongono il problema al concilio dei nephilim, che assegna a uno di loro, Mahawai, il compito di andare a consultare Enoch, che a quel punto risiede nel paradiso terrestre. Per questo motivo Mahawai “[si levò in aria] come un turbine, e volò con l’aiuto delle proprie mani come [alata] aquila [sopra] le terre coltivate e attraversò Solitudine, il gran deserto, […]. E avvistò Enoch e lo chiamò”. Enoch spiega che i 200 alberi rappresentano i 200 Vigilanti, mentre l’abbattimento dei loro tronchi significa la loro distruzione in una prossima conflagrazione e diluvio. Molto più significativo, tuttavia, è il modo in cui Mahawai consegue il volo astrale, perché si dice che abbia usato “le sue mani come (un’)[alata] aquila”. Altrove, nello stesso testo enochiano, Mahawai assume l’aspetto di un uccello per compiere un altro lungo viaggio. In quell’occasione egli rimane quasi bruciato dal calore solare e viene salvato unicamente dalla voce celestiale di Enoch, che lo convince a tornare indietro e a non morire prematuramente – una storia molto vicina a quella del volo fatale di Icaro verso il Sole nella mitologia greca. In aggiunta a questa testimonianza, una variante dello stesso testo paragona i figli di Shemyaza “non (con)l’aquila, ma le sue ali”, mentre nello stesso passo i due fratelli vengono descritti mentre si trovano “nel loro nido”, affermazioni che hanno incoraggiato lo studioso ebraico J.T. Milik a concludere che, come Mahawai, anche loro “potrebbero essere stati uomini-uccello”.
Quella era l’irresistibile conferma che gli angeli erano originariamente una cultura o una tribù che praticava una sorta di sciamanismo associato agli uccelli, e in particolare a un terrificante volatile nero, come un corvo o un avvoltoio.
Se i nephilim, citati nel il Libro di Enoch e nella letteratura di Qumran erano, in realtà, un popolo più evoluto degli ebrei, venuto in contatto con gli stessi in epoca preistorica, due domande sorgono spontanee: chi o che cosa erano questi uomini-uccello dal viso di serpente? E, soprattutto da dove venivano?
La letteratura enochiana e quella del Mar Morto tratta di tradizioni che riguardano una razza completamente differente da quella umana. Chi erano quindi? E dove potevano essere stanziati? Sappiamo che le leggende della caduta degli angeli hanno avuto probabilmente origine in Iran, e più precisamente nel regno nordoccidentale della Media (l’odierno Azerbaigian), abbiamo dunque tutti i motivi per associare tali tradizioni alle montagne al di là di questa regione. Questa teoria è più o meno confermata da un testo del Mar Morto, la Genesi apocrifa, che narra di come il patriarca Enoch, dopo l’ascensione in Cielo, abbia passato il resto della sua vita “tra gli angeli” in “paradiso”. Anche se il termine “paradiso” viene usato in alcune traduzioni del testo originale, la parola esatta è Parwain. Perciò fui molto sorpreso dalla scoperta che nelle antiche tradizioni dei mandei, (cfr. HERA n° 57 pag. 36), Parwan è una montagna sacra localizzata nei pressi della Media. Inoltre, sia Parwan sia Parwain sembrerebbero derivare la propria radice dall’antica parola media parswana, che significa “costa, lato, frontiera”, usata per descrivere le genti e i territori al di là dei confini di quell’antico regno. Ciò comprenderebbe la Partia a sud e, molto più significativamente, la regione montagnosa della Parsua a ovest. La credenza, quindi, voleva che Enoch avesse vissuto “tra gli angeli” negli aspri territori montagnosi oltre i confini dell’antico regno della Media? Forse nella regione della Parsua? Era da lì che venivano i Vigilanti? Da lì erano discesi nelle pianure per prendere mogli mortali e rivelare le arti proibite e i segreti del Cielo? Nella tradizione iranica il reame degli immortali e la dimora dei mitici dèi-sovrani dell’Iran (i quali, al pari della razza caduta della tradizione giudaica, avrebbero avuto una statura molto alta con una pelle bianca come l’avorio e una fisionomia radiosa), era conosciuto come Airyana Vaejah, la Distesa Iranica. Le tradizioni tramandate dai magi (cfr pag. 47 su questo numero)sostenevano che questo dominio etereo si trovava tra le montagne della Media. Tutte le strade sembrano condurre alla regione montuosa dell’odierno Azerbaigian che si estende a ovest nei monti Taurus dell’Anatolia orientale e della Siria settentrionale, a nord nella regione dell’Armenia, e a sudest lungo la catena dei monti Zagros. Questa vasta zona abitata principalmente da nomadi, da bande di ribelli bellicosi, da comunità religiose isolate e dall’occasionale villaggio o città, è conosciuta al mondo come Curdistan. Tuttavia, secondo la tradizione biblica e apocrifa, quello era anche il luogo dove si trovava il Giardino dell’Eden e il punto d’approdo dell’Arca di Noé. E io capii che era lì che dovevo andare alla ricerca del reame degli immortali.
A est, nell’Eden
Il Libro della Genesi parla della creazione di un giardino “a est, nell’Eden”. Lì Adamo ed Eva divennero i progenitori dell’umanità prima della loro cacciata a causa degli inganni del subdolo Serpente della Tentazione. Il serpente non solo era il sinonimo primario per i Vigilanti e i nephilim, ma il Libro di Enoch stabilisce persino quale “serpente”, o Vigilante, avesse portato i nostri progenitori alla tentazione. A questo proposito è interessante notare che il Bundahishn, un testo sacro dello Zoroastrismo, cita Angra Mainyu, lo Spirito Malvagio padre dei daeva, con lo stesso ruolo, e come i Vigilanti anch’egli viene descritto come un serpente con le “gambe”.
Quindi dov’era l’Eden? Tutto quello che sappiamo è che era situato tra i Sette Cieli, un reame con giardini, orti e osservatori in cui risiedevano gli angeli e i Vigilanti, secondo il Libro di Enoch. La parola “Eden” viene tradotta dall’ebraico con “piacere” o “delizia”, un riferimento al fatto che Dio creò quei giardini per il piacere dell’umanità. Questa non è, tuttavia, la sua vera origine. La parola “Eden” viene, infatti, dall’accadico, una lingua semitica introdotta in Mesopotamia (il moderno Iraq) dalle genti di Akkad, una razza che ha assunto il controllo dell’antico regno di Sumer durante la seconda parte del III millennio a.C. Nella loro lingua la parola “Eden”, o edin, significava “steppa” o “terrazza”. Per quanto concerne invece la parola “paradiso”, ho scoperto che si riferisce semplicemente a una “cinta muraria”, dalle radici persiane pairi, “intorno”, e deza “muro”. Esso è stato introdotto piuttosto di recente nella letteratura religiosa giudaico-cristiana e, in realtà, è entrato in uso solamente dopo il 1175 d.C. La parola ebraica ha shemim, inoltre, viene tradotta come “i cieli”, ma può anche riferirsi a “luoghi elevati”, come gli insediamenti d’altura. E la radice ebraica shm può assumere sia il significato di “alture”, sia quello di “pianta” o “vegetazione”, implicando forse che la parola ha shemim potrebbe essere tradotta più accuratamente come “altopiano coltivato”. Queste etimologie, secondo me, evocano l’immagine di un insediamento agricolo circondato da mura con delle terrazze a gradoni poste su un altopiano. È possibile, quindi, che l’Eden fosse un’area agricola arroccata tra le montagne del Curdistan? Era affidato alle cure degli angeli, sotto il dominio dei Vigilanti, come suggerisce il testo del Libro di Enoch? E, cosa più importante, dove si trovava?
I fiumi del Paradiso
Il Libro della Genesi sostiene che dall’Eden fluiscono le sorgenti di quattro fiumi. I loro nomi sono Pison, Ghicon, Hiddakel ed Eufrate. Di questi quattro, solamente l’ultimo può essere identificato con certezza. L’Eufrate, infatti, è uno dei due fiumi della Mesopotamia che sgorga nel Curdistan turco, per poi attraversare la Siria e l’Iraq prima di gettarsi nel Golfo Persico. Gli altri tre furono identificati dai primi studiosi biblici con il Gange in India (ma occasionalmente anche con l’Oronte, in Siria), il Nilo in Africa e il Tigri, il secondo fiume della Mesopotamia, che attraversa anch’esso l’Iraq prima di sfociare nel Golfo. I primi due furono scelti come sostituti convenienti, in quanto erano visti come i fiumi più imponenti dell’epoca classica; solamente l’associazione Hiddakel-Tigri aveva un qualche senso, geograficamente parlando. In nessun modo si poteva dire che tutti i quattro fiumi sgorgassero dalla stessa regione, un problema sul quale i teologi sorvolarono elegantemente prima della riscoperta della cartografia nel XVI sec. d.C. Altre fonti, in particolare la Chiesa Armena, accettano il Tigri e l’Eufrate come due dei quattro fiumi del Paradiso, tuttavia preferiscono associare gli altri due, il Pison e il Ghicon, rispettivamente con il Grande Zab, che sgorga nel Curdistan turco per poi confluire nel Tigri, e il fiume Arasse, che ha le sue sorgenti nella zona di confine tra Turchia e Armenia e poi sfocia nel Mar Caspio. La Chiesa Armena è nel giusto? Probabilmente sì, in quanto sono gli abitanti dell’area geografica in questione e potrebbero essere in possesso di tradizioni locali segrete e inaccessibili ai teologi esterni. Qualunque sia la vera identità dei due fiumi, la tradizione curda colloca le loro sorgenti nei pressi del Lago Van, che si insinua tra Armenia, Iran e Iraq. E, in effetti, le leggende tramandano che il Giardino dell’Eden si trova “sul fondo del Lago Van”, in quanto è stato sommerso dalle onde provocate dal Diluvio Universale. Curiosamente, la montagna di Cudi Dag, o Monte Judi, a sud del Lago Van, è il luogo indicato dall’Islam e dalle sue varianti di estrazione curda come il cosiddetto Luogo di Discesa, il sito dove approdò l’Arca di Noé dopo il Diluvio Universale. L’attribuzione dello sbarco al più familiare Monte Ararat è pura invenzione cristiana che non ha una base reale nella prima tradizione religiosa. Tutto ciò sembra indicare che i compilatori del Libro della Genesi localizzavano sia la culla dell’umanità, il Giardino dell’Eden, che il luogo della sua rigenerazione dopo il Diluvio Universale con la stessa regione del Curdistan settentrionale, sicuramente un indizio del fatto che la chiave delle origini dei Vigilanti risiede proprio in quest’area geografica.
La montagna celeste
Tuttavia, non sono solamente gli iraniani e gli ebrei a citare il Curdistan come la culla della civilizzazione. Anche la mitologia dei sumeri e dei loro successivi conquistatori, gli accadi, situava la patria degli dèi esattamente nella stessa regione. Nella loro letteratura religiosa questa dimora divina viene chiamata Kur, la montagna celeste. In quel luogo gli dèi, chiamati Anannage, o Anunnaki, vivevano in un reame paradisiaco fatto di giardini, orti, templi e campi irrigati che non solo ricorda i Sette Cieli descritti nel Libro di Enoch, ma viene anche indicato in più di un’occasione come edin, la parola accadica per “steppa” o “altopiano”. Oltre a ciò, a legare Kur con il regno ebraico degli angeli vi è anche il fatto che gli Anunnaki, come i Vigilanti enochiani, erano governati da un consiglio composto da sette membri. Questi equivalevano ai sette arcangeli dell’ebraismo dopo l’esilio, e ai sei cosiddetti Amesha Spenta, o “santi immortali”, che, insieme al dio supremo Ahura Mazda, presiedono alle gerarchie angeliche della tradizione iranica. Gli Anunnaki, quindi, erano un’altra “versione” dei Vigilanti enochiani e del Mar Morto, la cui terra d’origine era un insediamento agricolo d’altura chiamato Eden, localizzato da qualche parte tra le montagne del Curdistan?
La ricerca di Dilmun
Per riferirsi al luogo delle loro origini, oltre a Kur, in Mesopotamia si impiegarono anche Dilmun, o Tilmun. Si diceva che lì il dio Ea e sua moglie istituirono “un’età senza infamia di completa felicità”. Viene anche descritto come una pura, linda e “splendente dimora degli immortali” dove la morte, la malattia e la sofferenza sono sconosciute e alcuni mortali hanno ricevuto in dono “la vita di un dio”, parole che ricordano lo Airyana Vaeja, il regno degli immortali nei miti e leggende iranici, e l’Eden della tradizione ebraica. Anche se Dilmun viene collocata da molti studiosi sull’isola di Bahrain nel Golfo Persico, ci sono testimonianze che suggeriscono l’esistenza di una mitica Dilmun molto anteriore in una zona montagnosa al di là delle pianure di Sumer. Dove si trovasse esattamente le iscrizioni mesopotamiche non lo dicono; tuttavia, il testo del Bundahishn zoroastriano e i documenti cristiani di Arbela, nel Curdistan iracheno, si riferiscono entrambi a una località chiamata Dilmân, situata in corrispondenza alle sorgenti del Tigri, a sudovest del Lago Van. Oltre a ciò, Ea era detto presiedere alla confluenza dei due maggiori fiumi della Mesopotamia, spesso raffigurati mentre sgorgano da ognuna delle spalle del dio. Molto curioso è il fatto che come nei miti ebraici e iranici, anche tra gli Annunaki ci sarebbe una stirpe di dèi caduti. Mentre 300 rimasero in Cielo, altri 600, sotto il comando di Nergal, dio del mondo sotterraneo, si insediarono tra i mortali, ai quali diedero molte conoscenze, come le basi dell’agricoltura, l’astronomia, l’irrigazione delle terre, la tecnologia delle costruzioni e la struttura della società. Suona familiare? Questi Anunnaki ribelli vivevano “nella terra”, riferendosi a un reame “sotterraneo” connesso con l’antica città di Kufa, a nord di Babilonia. In quella “Casa dell’Oscurità”, dove risiedevano “demoni” ed edimmu, giganteschi vampiri che succhiavano il sangue, i quali salivano in superficie quando faceva buio per rubare le anime dei vivi. Questi esseri infernali potrebbero essere una reminiscenza distorta dei Vigilanti e della loro mostruosa progenie, i nephilim? Questi angeli perduti avrebbero potuto vivere in città sotterranee dopo la loro discesa nelle pianure?
I corpi d’uccello
L’antica Mesopotamia ha dato i natali a interi pantheon di diavoli e demoni, ogni classe dei quali aveva il proprio aspetto, le proprie funzioni e i propri attributi. Alcuni erano benefici all’umanità, mentre altri causavano unicamente dolore, sofferenza e tormento. Nella storia della discesa della dea Ishtar nel mondo sotterraneo, conservata dalla tradizione assiro-babilonese, i “capi” della “Casa dell’Oscurità” erano detti somigliare “agli uccelli coperti di piume”, i quali “governavano la Terra sin dai tempi antichi[…]”. In una tavoletta cuneiforme da Kufa sono descritte le incursioni in Mesopotamia di una razza di demoni, allevata dagli dei in qualche regione sotterranea. Si narra avessero guerreggiato contro un re, di cui non viene dato il nome, per tre anni consecutivi e che avevano il seguente aspetto: “Uomini con il corpo di uccelli del deserto, esseri umani con il viso di corvo, questi furono creati dai grandiosi dèi, e nella terra gli dèi crearono per loro una dimora… nel centro della terra crebbero e divennero grandi, e aumentarono di numero, sette re, fratelli della stessa famiglia, in numero di seimila erano le loro genti”. Questi “uomini con il corpo di uccello” erano visti come “demoni”. Essi apparivano solamente quando una nuvola di tempesta avanzava sul deserto e facevano a pezzi tutti coloro che catturavano, prima di tornare a una qualche inaccessibile regione per un altro anno. Tutto sembra suggerire che questi feroci “demoni” fossero tutt’altro che spiriti incorporei, ma piuttosto esseri in carne e ossa paludati in mantelli di piume e accessori che richiamavano gli uccelli. Ma chi erano questi demoni umani? E quale relazione avevano con lo sviluppo della civilizzazione in Mesopotamia?
Forze sconosciute
I sumeri erano una popolazione unica. Nessuno sa quale sia la loro vera origine e dove esattamente abbiano preso la conoscenza per fondare le loro città-stato nel IV millennio a.C. Tuttavia, i sumeri stessi avevano idee molto chiare su questo punto. Sostenevano che la loro intera cultura era stata ereditata dagli Anunnaki e che provenivano da una patria ancestrale situata tra le montagne. Per enfatizzare ciò usavano l’ideogramma rappresentato da una montagna per indicare “il paese”, cioè Sumer, e costruivano ziqqurat (costruzioni piramidali) a sette piani in onore dei loro dèi fondatori. È possibile quindi che la supposta cultura dei Vigilanti del Curdistan fornì l’impulso per la nascita della civiltà occidentale? Gli archeologi non hanno alcun problema ad accettare il Curdistan come la culla della civiltà del Vicino Oriente. Poco dopo la recessione dei ghiacci dell’ultima Era Glaciale, all’incirca nell’8500 a.C., in questa regione emersero alcuni dei primi esempi di agricoltura, domesticazione di animali, terracotta decorata, metallurgia e utensili e attrezzi in ossidiana lavorata. Curiosamente, all’incirca dal 5750 a.C. in poi, per diverse centinaia di anni il commercio di ossidiana grezza e lavorata si concentrò intorno al vulcano estinto chiamato Nemrud Dag, sulle rive sudoccidentali del Lago Van, proprio l’area in cui sembra si trovassero le mitiche terre di Eden e Dilmun. Il Curdistan ha costituito il punto di origine della cosiddetta “esplosione neolitica” avvenuta dal IX millennio a.C. in poi. Infatti, è proprio grazie allo stile di vita di questa comunità che si è sviluppata la prima forma di baratto “a gettone” conosciuta. Questo primitivo metodo di scambio, in seguito, condurrà alla creazione del primo sistema ideografico e sillabico nelle pianure mesopotamiche durante il IV millennio a.C. Ma, cos’ha causato questa “esplosione neolitica”? E per quale motivo è iniziata in questa regione così remota e aspra? Mancava qualcosa, in quanto Mehrdad R. Izady, rinomato studioso di storia culturale curda, ha osservato: “Gli abitanti di queste terre attraversarono uno stadio di evoluzione tecnologica accelerata, causata da forze ancora sconosciute. Ben presto si trovarono molto più avanti delle comunità circostanti, la maggioranza delle quali erano già tra le civiltà tecnologicamente più avanzate del mondo”. Che cosa potevano essere queste “forze ancora sconosciute”? Erano forse i Vigilanti, che si diceva avessero fornito all’umanità le arti e le scienze proibite del Cielo? Se fosse così, stavo forse trascurando prove importanti di ciò già portate alla luce dalle pale di paleontologi e archeologi? Rivolgendo, quindi, la mia attenzione ai rapporti archeologici degli scavi in Curdistan, cercai a fondo e a lungo. Ciò che ho trovato mi ha sbalordito.
Ali di sciamano
Verso la fine degli anni Cinquanta, Ralph e Rose Solecki, due antropologi di chiara fama, mentre stavano scavando i diversi livelli di insediamento all’interno di una caverna sovrastante il fiume Zab, in un sito chiamato Zawi Chemi Shanidar, fecero una scoperta che divenne estremamente importante per la mia tesi. I due ricercatori portarono alla luce un certo numero di teschi di capra disposti insieme a una serie di ossa delle ali di grandi uccelli predatori. Tutte le ali erano state mozzate dal corpo degli uccelli, mentre alcune delle ossa avevano ancora le articolazioni. La datazione al carbonio-14 ha rivelato un’età di 10.870 anni (con un margine di errore di 300), collocandole nel 8870 a.C. Le ali successivamente identificate appartenevano a quattro esemplari di Gypteus barbatus (avvoltoio barbuto), a un Gyps fulvus (grifone eurasiatico), sette Haliaetus albicilla (aquila marina codabianca) e una Otis tarda (otarda maggiore), solamente l’ultima risulta essere una specie autoctona. Tutti, tranne l’otarda, erano uccelli predatori, e gli avvoltoi ovviamente si nutrivano di carogne. La scoperta di queste ali amputate costituiva per i Solecki una serie di problemi. Perché erano state selezionate solamente alcune specie di volatili? E qual era esattamente il ruolo che questi enormi uccelli predatori avevano nella mente di coloro che li posero nella caverna di Shanidar? In un importante articolo, intitolato Predatory Bird Rituals at Zawi Chemi Shanidar, pubblicato dalla rivista Sumer nel 1977, Rose Solecki descrisse la scoperta dei teschi di capra e dei resti di uccello. Secondo lei, le ali venivano quasi certamente utilizzate per qualche sorta di costume rituale, indossato come decorazione personale, oppure per scopi cerimoniali. La studiosa le collegava allo sciamanesimo degli avvoltoi di Çatal Hüyük, una comunità protoneolitica dell’Anatolia centrale (Turchia) che raggiunse il proprio apice 2.000 anni dopo che queste ossa d’uccello venissero depositate nella caverna di Shanidar, a 900 km di distanza. La ricercatrice riconobbe l’enorme importanza di questi ritrovamenti, e capì che costituivano prova certa della presenza di un importante culto religioso nella zona di Zawi Chemi Shanidar, come concluse nel suo articolo: “Le genti di Zawi Chemi dovevano attribuire a questi grandi uccelli predatori poteri speciali, e i resti animali che abbiamo descritto nel sito dovevano rappresentare particolari accessori rituali […]. Le ali venivano conservate per ricavarne le piume, per farne dei ventagli o come parte di un costume rituale. Uno dei dipinti murali del santuario di Çatal Hüyük raffigura proprio una scena rituale simile, ossia, una figura umana vestita con pelle d’avvoltoio […]”. Quella era una prova straordinaria dell’esistenza di sciamani-avvoltoio sugli altipiani del Curdistan nell’8870 a.C. circa! Per di più, tutto ciò accadeva ad appena 225 km dalla possibile località dove avrebbero dovuto trovarsi Eden e Dilmun, il lago Van, in un periodo in cui le genti degli altipiani del Curdistan stavano passando da una società primitiva a una comunità sedentaria protoneolitica. I resti di uccelli predatori potrebbero avere una qualche connessione con le “forze ancora sconosciute” alla base dell’improvvisa esplosione neolitica della regione? Basti ricordare che in quest’articolo è già stato stabilito che i Vigilanti indossavano mantelli di piume, plausibilmente di corvo o di avvoltoio. Alla mia mente si affacciarono un gran numero di possibilità. Che cosa accadeva in questa caverna che si affacciava sul Grande Zab, che, per l’appunto, è già stato citato come uno dei quattro fiumi del paradiso? Era stato visitato dai Vigilanti, gli angeli umani, nel IX millennio a.C.? La presenza di resti di uccelli predatori aveva un senso, ma i quindici teschi di capra, che cosa c’entravano? Tutti enigmi cui cercherò di dare una risposta…
Il Melek Taus adorato dagli Yezidi era un Nephilim? Le statuette umane dal volto di serpente delle genti Jarmo erano rappresentazioni degli angeli caduti? Il Curdistan è davvero il luogo di discesa dei Vigilanti, e quindi l’origine dell’intera civiltà occidentale?
Lo studioso curdo Mehrdad Izady vede i resti di uccelli predatori della caverna di Shanidar, di cui si è parlato nel numero scorso, come prova di una cultura sciamanica la cui memoria ha influenzato lo sviluppo delle credenze riguardanti gli angeli. Il Curdistan è la patria di tre culti di adorazione degli angeli completamente autoctoni, e il più noto ed enigmatico è quello degli Yezidi, abitanti del Curdistan iracheno. Il loro credo è centrato intorno a un essere supremo chiamato Melek Taus, “l’angelo pavone”, che viene venerato nella forma di uno strano uccello iconico chiamato sanjaq. Queste statue, che sono appoggiate su una colonna di metallo simile a un candelabro, sono fatte di solito in rame o bronzo. Curioso è il fatto che i più antichi sanjaq conosciuti non sembrano affatto pavoni, in quanto presentano un corpo tondeggiante e il naso adunco. Izady ha suggerito che gli idoli sanjaq in realtà rappresentino uccelli predatori come quelli apparentemente venerati dagli sciamani di Shanidar, ossia avvoltoi o aquile.
Le genti Jarmo
Tutte queste erano buone notizie, in quanto aiutavano a provare l’idea di una cultura avanzata sulle montagne del Curdistan al momento dell’inizio della rivoluzione neolitica. Se furono questi sciamani-avvoltoio a portare una conoscenza superiore alle comunità agricole che si andavano lentamente sviluppando tra le colline più basse, allora dovevano essere loro la verità dietro il mito dei Vigilanti che impartirono le scienze celesti all’umanità. Non vi era, tuttavia, nessuna descrizione di questi sciamani che andasse oltre l’apparenza dei loro abiti cerimoniali. Somigliavano in qualche modo agli individui di pelle bianca con fisionomia raggiante e volti di vipera cui si riferiscono il Libro di Enoc e la letteratura del Mar Morto? (cfr. HERA n°59 pag.28). Era possibile recuperare prove archeologiche riguardanti l’esistenza di una razza scomparsa che avesse almeno alcune di queste caratteristiche? La risposta a quest’ultima domanda è si, in quanto in una località conosciuta come Jarmo, che domina il Piccolo Zab, nel Curdistan iracheno, gli archeologi hanno portato alla luce testimonianze di una comunità protoneolitica avanzata, che fiorì intorno al 6750 a.C. per circa 2.000 anni. Proprio a Jarmo sono stati rinvenuti i più antichi esempi conosciuti di metallurgia primitiva. Molto più interessante è il fatto che queste genti erano abilissime nel produrre piccole immagini scolpite in terracotta. Letteralmente migliaia di queste figurine sono state trovate sin nei primi livelli d’insediamento. La maggior parte ritraggono animali e uccelli. Alcune rappresentano teste tipicamente umane, mentre altre mostrano una figura umana, plausibilmente una raffigurazione della Dea Madre. Sembra quasi che i Jarmo amassero catturare immagini dal mondo che li circondava, un po’ come noi fotografiamo gli oggetti, gli animali e le persone oggigiorno. Ma se questa è la verità, come possiamo spiegare la presenza, tra queste figurine, di diverse teste antropomorfe con facce allungate, occhi a fessura e una fisionomia inconfondibilmente “da lucertola”, o, più correttamente, “da serpente”? Quando vidi alcune immagini raffiguranti le teste Jarmo mi accorsi subito delle impressionanti similitudini con la descrizione dei Vigilanti data dal Libro di Enoc e dalla letteratura del Mar Morto. Era, quindi, possibile che le genti neolitiche di Jarmo avessero ritratto in forma parzialmente astratta le facce di vipera degli alti stranieri ammantati di piume che facevano loro visita seppur non invitati? Erano questi stranieri che fornivano alle comunità come quella di Jarmo la conoscenza della metallurgia così come i rudimenti dell’agricoltura? Possiamo solo fare delle supposizioni, ma può essere utile far notare che gli attrezzi di ossidiana rinvenuti a Jarmo sono stati forgiati da materiale grezzo scavato alle pendici del Nemrud Dag, sul lago Van. I Vigilanti commerciavano in ossidiana?Potrebbero questi oggetti finemente lavorati essere un segno della loro presenza in altre comunità simili nel Curdistan?
Il popolo del serpente
Verso il 5500 a.C. gli abitanti degli altipiani curdi cominciarono la loro discesa in massa verso le pianure della Mesopotamia. Più o meno nella stessa epoca veniva fondata Eridu, la prima città della Mezzaluna Fertile, con il suo complesso di templi, che comprendeva una vasca rituale sotterranea. Intorno al 5000 a.C. arrivò nelle pianure settentrionali della Mesopotamia una nuova cultura conosciuta oggi come Ubaid (chiamata così da Tell al-‘Ubaid, il sito dove venne rilevata per la prima volta la sua esistenza da parte dell’eminente archeologo orientalista Sir Leonard Woolley nel 1922). Costoro portarono con sé le proprie peculiari pratiche funerarie e lo stile artistico unico, che comprendevano l’abitudine di lasciare stranissime figurine antropomorfe nelle tombe dei loro morti. Le statuette erano sia maschili che femminili (anche se prevalentemente femminili), con esili corpi nudi ben proporzionati, spalle larghe e strane teste rettiloidi alle quali gli studiosi generalmente si riferiscono come aventi apparenza “di lucertola”. Possedevano visi affusolati, con larghe fessure oculari – di solito palline ellittiche di argilla che costituivano i cosiddetti occhi “a chicco di caffè” – e uno spesso, scuro pennacchio di bitume sulla testa a rappresentare una crocchia di capelli dritti (simili acconciature in argilla sono presenti anche in alcune statuette di Jarmo). Tutte le statuette mostrano il pelo pubico triangolare o i genitali maschili. Ogni figurina di Ubaid ha la sua posa particolare. La più strana e irresistibile è di gran lunga quella che mostra un essere femminile nudo che tiene un bimbo al suo seno sinistro. La mano sinistra dell’infante si trova sul seno ed è chiarissimo che sta allattando. L’immagine sarebbe estremamente toccante, se non fosse per una caratteristica agghiacciante del neonato: i suoi occhi sono allungati e ha la testa di un rettile. Ciò è molto significativo, poiché suggerisce che il bimbo sia nato con quelle caratteristiche. In altre parole, le teste di lucertola non erano maschere o forme animali simboliche ma immagini astratte di una vera razza che le genti di Ubaid associavano a caratteristiche rettiloidi. Negli anni passati, le figurine “lucertoloidi” sono state identificate dagli studiosi con rappresentazioni di Dee Madri – concetto totalmente erroneo, dato che alcune di esse sono ovviamente maschili – mentre teorici di paleoastronautica come Erich von Däniken hanno visto in esse immagini di entità aliene. Credo che entrambe le spiegazioni inquadrino queste figurine d’argilla in categorie comuni inadatte a spiegarne il reale simbolismo. Inoltre, dato che la maggior parte degli esemplari è stata rinvenuta in tombe, dove costituivano spesso l’unico oggetto di una certa importanza, Sir Leonard Woolley ne concluse che rappresentavano “divinità ctonie”, ossia, abitanti di un mondo sotterraneo connesso in qualche modo con i riti dei morti.Oltre a ciò, sembra altamente improbabile che rappresentino individui dalla faccia di lucertole, in quanto le lucertole non sembrano aver nessun significato particolare nella mitologia mediorientale. È molto più probabile che si tratti di teste di serpente, che erano associate alle divinità sotterranee sumeriche come Ningiszida. Visto che le teste delle figurine Ubaid avevano la medesima foggia degli esempi più antichi trovati a Jarmo, sulle montane curde, potrebbero essere rappresentazioni stilizzate dei Vigilanti dalla faccia di vipera? Il fatto che tali figurine si trovavano specificamente nelle tombe suggerisce che fossero connesse con qualche tipo di pratica connessa con i riti funerari. Che cosa tentavano di fare gli Ubaid ponendo queste strane statuette nelle tombe dei loro cari? Tentavano di assicurare all’anima il passaggio sicuro nell’aldilà, o volevano piuttosto proteggere il cadavere in seguito alla sepoltura? La tarda tradizione babilonese era permeata da una vera e propria paura che, se i morti non fossero stati interrati nella maniera appropriata, le loro anime sarebbero state condotte nel mondo sotterraneo per trasformarsi in Edimmu, i demoni che succhiano il sangue. Era questa la paura degli Ubaid? Che i loro defunti avrebbero potuto essere trasformati in vampiri se i Vigilanti dal viso di vipera non venivano ingraziati nella maniera corretta?
Il mondo sotterraneo
Anche se non vi sono tracce di domini sotterranei in Mesopotamia, cittadelle ctonie molto antiche esistono davvero in Medioriente. Ad esempio, in Cappadocia, nella Turchia orientale, esistono non meno di 36 città sotterranee, la più famosa delle quali è quella di Derinkuyu, che si stima contenesse 20.000 abitanti circa (cfr. HERA n°47, pag.52). Le città esplorate sinora arrivano a una profondità massima di quasi mezzo chilometro e presentano strade, sistemi di tunnel complessi, abitazioni e stanze e aree comuni. Ognuna di esse può essere sigillata dal mondo esterno facendo ruotare davanti all’apertura enormi porte circolari, mentre sulla superficie gli unici segni visibili della loro presenza sono pietre megalitiche in posizione eretta che segnano la posizione di pozzi profondi che fungono anche da canali d’aerazione per i vari livelli.
La popolazione che ha costruito questi regni sotterranei è ancora sconosciuta. La loro civiltà dovrebbe risalire perlomeno a 4.000 anni fa, mentre prove sperimentali suggeriscono che la costruzione di tali insediamenti risalga almeno al 9000 a.C., quando l’ultimo sussulto dell’Era Glaciale stava per dare una connotazione artica al clima del Medioriente. Allo stesso tempo i numerosi vulcani attivi spruzzavano piogge di fuoco nei territori circostanti e, quando alla fine l’Era Glaciale si decise a recedere, inondazioni comparabili al diluvio biblico portarono la distruzione totale nelle zone più depresse. Inoltre, la mitologia persiana tramanda che gli antenati della razza iranica sono sopravvissuti al lungo inverno di neve e ghiaccio costruendo un var, parola che indica una città sotterranea. Il ricordo di tali mondi sotterranei probabilmente era anche alla base della credenza giudaico-cristiana nella Gehenna o Inferno – il reame ardente in cui vennero reclusi gli angeli caduti come punizione per aver interferito negli affari dell’umanità.
Il paesaggio lunare della Cappadocia
Nelle vicinanze delle città sotterranee di Cappadocia si trova un paesaggio quasi lunare costituito da migliaia di enormi rocce coniche scolpite nell’arco di migliaia di anni dai venti. La tradizione locale li chiama peri bacalari, i camini dei Peri – bellissimi angeli caduti figli di Iblis, la forma arabo-persiana di Satana. Questi “camini fatati”, come vengono inappropriatamente tradotti, si crede siano infestati dai djinn, controparti spettrali degli angeli e come questi caduti dal paradiso. Molte di queste formazioni rocciose vennero occupate agli inizi dell’era cristiana, mentre alcune di esse vennero addirittura trasformate in chiese rupestri dal VI sec. in poi. Le più antiche contengono innumerevoli immagini affascinanti, che vanno oltre l’iconografia accettata della prima Chiesa. Vi sono curiosi disegni geometrici e, in un caso, nella Chiesa di Santa Barnara, un uomo-uccello stilizzato, che potrebbe benissimo ricordare uno stilema ritrovato nei templi degli avvoltoi di 8.000 anni fa a Çatal Hüyük. La prossimità di questa chiesa cristiana unica nel suo genere e di Çatal Hüyük alle città sotterranee non è da sottovalutare. Ricordiamo anche che, nella storia della discesa di Ishtar nel mondo sotterraneo, la dea incontra esseri “come uccelli coperti di piume”, i quali “sin dai tempi antichi governavano la terra”. È possibile che gli abitanti delle città sotterranee fossero davvero i progenitori dei fondatori di Çatal Hüyük? Potrebbero essere connessi alla cultura sciamanica dei Vigilanti degli altipiani curdi, che si trovano a una certa distanza a est della Cappadocia?
Figli dei djinn
Se così fosse, allora da dove hanno tratto la loro origine queste peculiari culture sciamaniche? Si sono semplicemente sviluppate in Turchia e in Curdistan poco dopo la fine dell’ultima era glaciale, o i loro antenati migrarono da qualche altra parte? I culti di adorazione degli angeli del Curdistan si considerano discendenti del patriarca Noé, il salvatore dell’umanità, la cui famiglia diretta si insediò nella loro terra. In contrasto, gli ebrei curdi si tramandano una storia molto curiosa sulle origini dei propri vicini, cui si riferiscono come “figli dei djinn”. Costoro sostengono che molto tempo fa il re Salomone ordinò a 500 djinn di trovargli le 500 vergini più belle del mondo, vietandogli di tornare senza aver raggiunto il numero esatto. Per eseguire il compito assegnatogli, essi si recarono in Europa. Ultimato il loro lavoro, i djinn stavano per tornare a Gerusalemme quando appresero che Salomone era morto. Che cosa dovevano fare? Dovevano riportare le donne in Europa o dovevano tenerle con loro? Poiché le vergini avevano “trovato favore agli occhi dei djinn, questi le presero in moglie. Ed esse diedero alla luce molti bellissimi bambini, e quelli generarono altri figli […] E fu così che nacque la nazione curda”. In un’altra versione della storia, 100 geni vennero inviati da Salomone alla ricerca delle 100 fanciulle più belle del mondo per il suo harem personale. Avendo raggiunto la quota richiesta, ma essendo, nel frattempo, morto il re, i 100 geni decisero di insediarsi con le fanciulle tra le inaccessibili montagne del Curdistan. La discendenza di questi matrimoni diede esito alla fondazione della razza curda, “che nella sua inafferrabilità ricorda i padri geni, e nella bellezza le loro madri”. Per quanto queste leggende possano sembrare prive di fondamento, cercano di dare una spiegazione agli aspetti esogeni di alcune comunità curde e pongono la loro origine nel regno biblico di Salomone, ossia nell’Israele moderno.
Montagna del Madai
I Mandei del basso Iraq sono molto più specifici circa l’origine della propria razza. Nonostante si dica che i loro antenati diretti giunsero da un luogo mitico chiamato la montagna di Madai, nel Curdistan iraniano, molto tempo prima i loro antenati, a loro volta, sembrerebbero essere giunti dall’Egitto. Anche se questa potrebbe sembrare pura e semplice fantasia da parte dei mandei, è comunque un fatto che la loro lingua contenga diverse parole di origine inconfondibilmente egizia. Cosa molto più importante, essi credono che dopo la morte l’anima voli a nord (verso le montagne del Curdistan), ed entri in un mitico regno chiamato Mataratha, il luogo del giudizio. Quello è il luogo dove si trovano le ntr, o case di guardia. Il termine ntr può essere usato anche come sostantivo in alcune lingue vicinorientali, con il significato di “vigilante”, lo stesso nome dato ai primi angeli dal Libro di Enoc e dalla letteratura di Qumran, mentre nell’antico egizio la stessa parola veniva usata per definire i Neteru, esseri divini vissuti in un’età dell’oro chiamata zep tepi, il Primo Tempo. Possibile che i Vigilanti del Curdistan fossero discendenti degli dèi-ntr egizi?
I primi fattori
Nonostante sia opinione comunemente accettata che l’esplosione neolitica ebbe inizio tra le montagne del Curdistan intorno all’8500 a.C., questa non coincise con la nascita dell’agricoltura, della domesticazione degli animali, della manifattura di strumenti di precisione e delle comunità sociali strutturate. Ci sono prove importanti che queste pratiche esistessero già in diversi luoghi sulle sponde del Nilo nell’Egitto meridionale e in Sudan, all’incirca nel 12500 a.C. Queste comunità avanzate continuarono a svilupparsi ininterrottamente sino al 10500 a.C., quando improvvisamente cessarono di praticare l’agricoltura senza ragione conosciuta. Gli studiosi hanno imputato questa improvvisa e completa cessazione del sofisticato stile di vita basato sull’agricoltura delle popolazioni nilotiche ai distruttivi straripamenti del Nilo dell’epoca. Tuttavia, credo vi fosse altro dietro questo incredibile regresso.
Sembrava quasi che coloro che avevano insegnato a queste popolazioni i rudimenti dell’agricoltura si fossero allontanati, lasciando che i propri ubbidienti pupilli regredissero a una primitiva economia di caccia e di raccolta molto più comune nel periodo in questione. E’ quindi interessante notare che dopo la sua apparente scomparsa dall’Egitto nel 10.500 a.C., l’agricoltura non riapparirà sino alla sua fioritura in Curdistan 1.500 anni dopo. È quindi possibile che gli insegnanti delle comunità nilotiche lasciarono l’Egitto per il Curdistan tra il 10500 e il 9000 a.C.? Chi erano in realtà questi ipotetici agronomi, e che cosa li portò ad abbandonare la terra coltivata dell’Egitto paleolitico in cerca di nuove dimore?
Una grande civiltà, di gran lunga precedente a quella egizia, sarebbe la madre delle culture faraonica e mediorientale. Fu l’Egitto la culla degli Angeli Caduti? Perché dovettero abbandonare la terra del Nilo? Una razza caduta la cui esistenza è ora innegabile.
Riassunto dei numeri precedenti: Gli angeli non erano entità incorporee ma personaggi in carne e ossa, di pelle chiara e capelli rossi, vissuti all’alba della civiltà, possessori di una conoscenza superiore proveniente da un’epoca pre-diluviana. Si mescolarono agli uomini e vennero chiamati Vigilanti, o Nephilim o ancora Shemsu Hor. Coloro che ne vennero a contatto li definirono uomini-uccello o uomini-serpente e li descrissero nel Libro di Enoch sino ai Rotoli del Mar Morto. Dalla Cappadocia al Kurdistan iracheno abbondano le leggende e le tracce neolitiche di queste genti considerate semi-divine. Da dove provenivano? L’autore risponde: “dall’Egitto” perché è lì che si troverebbero le tracce più antiche e avanzate di tale civilizzazione.
Molte testimonianze emerse negli ultimi tempi suggeriscono che la Grande Sfinge di Giza non sia stata eretta nel periodo dei faraoni come si è sempre creduto, ma molto tempo prima (cfr. HERA n°5 pag. 24). Come è stato ampiamente asserito negli ultimi anni, il profilo geologico di questo antichissimo monumento indica che era stato costruito prima della graduale desertificazione del Medio Oriente avvenuta nel IV millennio a.C. L’intensa erosione della pietra sembrerebbe provocata non dalla sabbia ma dalle precipitazioni verificatesi nell’arco di migliaia di anni. L’ultimo periodo caratterizzato da abbondanti piogge nella zona si è svolto nell’era che i climatologi chiamano il Neolitico sub-pluviale, tra l’8000 e il 5000 a.C. Ciò significa che la Sfinge sarebbe stata scolpita durante o addirittura prima di quell’epoca. La Sfinge raffigura quasi palesemente un leone, la cui testa è stata scolpita nuovamente in epoca faraonica a rappresentare il sovrano che indossa il copricapo chiamato nemes. Orientata esattamente verso est, volge lo sguardo verso il punto dell’orizzonte in cui il sole sorge in corrispondenza degli equinozi di primavera e d’autunno. La sua funzione è quella di un segnatempo, una sorta di lancetta dei minuti che segna il passaggio dell’orbita del sole dopo il suo ciclo di 365 giorni. Tuttavia, essa possiede anche una meno ovvia, seppure forse più importante lancetta delle ore che segna l’impercettibile movimento della volta stellare mentre effettua il suo lento ciclo di precessione di 26.000 anni. Questo effetto visivo è causato dalla lenta oscillazione della terra che può essere paragonata all’ondeggiare di una trottola che gira con estrema lentezza.
Costruita nell’era del Leone
In termini astronomici, il fenomeno conosciuto come “Precessione degli Equinozi” causa il movimento all’indietro delle dodici costellazioni dello zodiaco sulla linea dell’eclittica in una sequenza regolare. In termini più semplici, ogni costellazione che sorge insieme al sole, in corrispondenza di ogni equinozio, lascia il posto a quella successiva ogni 2.160 anni, fino a che tutti i 12 segni zodiacali compiono questo girotondo astronomico. Per riconoscere la precessione come un ciclo temporale a lungo termine, gli antichi dovevano distinguere quale segno sorgeva col sole durante l’equinozio di primavera che costituisce poi il giorno zero dell’anno di molte culture mediorientali. Se oggi guardiamo verso l’orizzonte ad est, appena prima del sorgere del sole del 21 marzo, vedremo le stelle dei Pesci. Quando Alessandro Magno conquistò l’impero persiano nel 330 a.C., vide le stelle dell’Ariete sorgere con il sole equinoziale mentre nel 2500 a.C., quando le Piramidi di Giza furono costruite, le stelle del Toro sorsero con il sole durante l’equinozio di primavera. Se la Grande Sfinge fosse stata costruita come segnale per gli equinozi nello stesso periodo delle vicine piramidi, ovvero in epoca faraonica, avrebbe più senso se avesse avuto la forma di un toro, essendo il toro Api l’animale totem di quel periodo. Il fatto che rappresenti un leone suggerisce una connessione con le stelle del Leone, essendo stata costruita in un’epoca in cui quella costellazione sorgeva con il sole equinoziale. L’ultima Età del Leone si è verificata tra il 10.970 e il 8.810 a.C., la Sfinge sarebbe stata dunque costruita in quel periodo. Questa non è assolutamente una teoria nuova. Per quanto ne so, venne esposta per la prima volta dall’astromitologo britannico Gerald Massey, nel 1907. Nella straordinaria opera intitolata Ancient Egypt – The Light of the World, egli coraggiosamente trae le seguenti conclusioni: “Possiamo datare la Sfinge come un monumento creato da questi grandi costruttori e pensatori, la cui fama è sopravvissuta tanto a lungo, risalenti a 13.000 anni fa”. Prove astromitologiche più recenti, presentate da Graham Hancock e Robert Bauval nel loro libro Custode della Genesi, (Corbaccio), hanno dimostrato in maniera convincente che la Grande Sfinge, come l’intera piana di Giza, sia databile al 10.500 a.C., nello stesso periodo in cui si interruppe la proto-agricoltura del Nilo. Poiché siamo a conoscenza del fatto che i grandi blocchi di pietra rimossi dal recinto, sprofondato intorno al monumento leonino al tempo della sua costruzione, vennero usati per edificare la Sfinge stessa e i templi della valle, allora presumibilmente anch’essi saranno databili alla stessa epoca. Tutto ciò indica la presenza in Egitto, intorno al 10.500 a.C., di una cultura avanzata nei campi dell’agronomia, dell’ingegneria, della tecnologia delle costruzioni, della mitologia legata alle stelle e alla terra, sino ad avere una profonda conoscenza del ciclo precessionale di 26.000 anni della terra. Chi erano queste genti? I costruttori della Sfinge erano davvero gli antenati degli alti Vigilanti dal volto di vipera del Kurdistan? Il folklore, le leggende e la diffusione dell’agricoltura nel mondo antico sembrerebbero sostenere tale ipotesi. Tuttavia, se ciò fosse esatto, cosa ha indotto l’antica cultura egizia a migrare verso gli altipiani del Kurdistan?
Distruzione globale
Come già dimostrato da altri, vi sono innumerevoli prove attestanti che, quando l’ultima era glaciale volse al termine tra l’XI e il X millennio a.C., il mondo fu scosso da una serie di drastici cambiamenti climatici e sconvolgimenti geologici. I vulcani eruttarono, i terremoti scossero la terra, le inondazioni sommersero grandi regioni e lunghi periodi di oscurità occultarono il sole. Ciò portò alla morte d’innumerevoli milioni di animali e la totale estinzione di dozzine di specie. Leggende che narrano di cataclismi sembrano aver codificato questi eventi con dettagli coloriti e spesso simbolici. L’antichissima cultura egizia quindi sarebbe venuta a trovarsi nel bel mezzo di questa terribile epoca. Si sa per certo che gli sconvolgimenti climatici del periodo causarono enormi inondazioni lungo il Nilo e questa per gli studiosi sarebbe la ragione della fine della proto-agricoltura.
Padre del terrore
Sembra molto probabile che quel terribile periodo forzò la sofisticata cultura egizia a frammentarsi e a disperdersi, da cui l’improvvisa interruzione della proto-agricoltura delle comunità nilotiche. Questa supposizione è sostenuta da vividi racconti d’incendi e inondazioni presenti nella stessa tradizione egizia. Ad esempio, testi copto-arabi parlano di devastazioni causate da inondazioni e da un grande incendio originatosi dalla costellazione del Leone – un riferimento non necessariamente a qualche corpo celeste caduto da quel settore del cielo ma piuttosto al periodo temporale in cui tali eventi si verificarono, ovvero nell’età del Leone. Ancor più significativo è il mito di Sekhmet, la divinità dalla testa di leone del pantheon egizio. A causa del fatto che l’umanità aveva volto le spalle alla via del dio del sole Ra, considerata “troppo antiquata”, la fiera dea aveva sprigionato un incendio devastante. Il genocidio di massa da lei iniziato avrebbe portato all’estinzione dell’umanità se non fosse stato per l’intervento di Ra in persona. Egli inviò una mistura intossicante che coprì la terra. Bevendo questa mistura, Sekhmet si ubriacò e cadde addormentata. Interpretando il fuoco violento di Sekhmet come rappresentazione di una terribile conflagrazione che devastò l’Egitto, potrebbe la mistura intossicante essere simbolo di una successiva inondazione? Se così fosse, Sekhmet potrebbe essere semplicemente un’allusione allegorica all’età del Leone? Tutti gli indizi sembrano simboleggiare il periodo di caos e distruzione che interessò la fine dell’era glaciale, forse dando origine al fatto che gli Arabi si riferiscano alla Sfinge come “padre del terrore”. Nella leggenda di Sekhmet, gli umani sopravvissuti riuscirono a sfuggire al devastante incendio della dea rifugiandosi sulle montagne, nascondendosi in buchi come serpenti. Simili mezzi di protezione contro i cataclismi che interessarono l’Età del Leone sono riscontrabili nelle mitologie di tutto il mondo, mentre la presenza di simili miti nella tradizione egizia sembrano indicare la frammentazione dell’antica cultura e il suo successivo ristabilirsi in altre regioni. Potrebbe ciò comprendere la Cappadocia, le cui città sotterranee sembrerebbero essere state costruite intorno al 9000 a.C. e le montagne del Kurdistan, dove i Vigilanti potrebbero aver catalizzato l’inizio della rivoluzione neolitica verificatasi all’incirca nell’8500 a.C.? La data di questa apparente diaspora della cultura ancestrale egizia verso la fine dell’ultima era glaciale può essere stabilita con un certo grado di accuratezza. Ad esempio, un testo copto-arabico del IX sec., conosciuto come Abou Hormeis, rivela che i sacerdoti-astronomi egizi, avendo compreso che la distruzione della loro razza fosse imminente, ne convennero che: “Il diluvio avrebbe avuto luogo non appena il cuore del Leone entrava nel primo minuto della testa del Cancro”. Il “cuore del leone” era il nome conferito in periodo classico alla stella Regulus, la “stella reale” del Leone che si trova esattamente sull’eclittica. Poiché la costellazione del Cancro segue il Leone unicamente nel ciclo processionale (in quanto il Leone segue il Cancro nel ciclo annuale), ciò sembra confermare che questa leggenda abbia conservato non solo la memoria di probabili eventi storici ma anche la data approssimativa in cui si svolsero. Da notare, inoltre, che il Cancro è ancora oggi simbolo di caos e di distruzione. Su mia richiesta, l’ingegnere elettronico Rodney Hale ha usato il programma Skyglobe 3.5 sulla base dei dati astronomici contenuti nel testo di Abou Hormeis. Egli ha così accertato che l’ultima volta in cui la “stella reale” del leone sorse e fu visibile al di sopra dell’orizzonte e ad Est appena prima dell’equinozio, avvenne nel 9.220 a.C. Poiché Regulus, il “cuore del leone”, non è più sorto con il sole dell’equinozio primaverile, potrebbero essere considerato dai sacerdoti egizi come un segnale che l’Età del Leone fosse giunta al termine e che l’età del Cancro fosse o in procinto di iniziare o già entrata nel suo “primo minuto”. Questa informazione suggerisce che a questo punto la cultura ancestrale lasciò l’Egitto in previsione di un grande diluvio che avrebbe sommerso la loro terra.
Kosmokrator
A questo punto, volgendoci verso la tradizione iranica, scopriremo che i diversi testi zoroastriani, compreso il Bundahishn, affermano che la storia del mondo ebbe inizio 9.000 anni prima della venuta del suo grande profeta, Zoroastro, nel 588 a.C., data tradizionalmente accettata. Ciò la fa risalire al 9.588 a.C. In quel tempo, secondo quanto asserisce un testo, le divinità dualistiche di quel credo, Ahura Mazda e Angra Mainyu, nacquero dal “fuoco nel cielo” e dalle “acque della terra”, ancora una volta criptici riferimenti al fuoco e alle inondazioni dell’Età del Leone.Le divinità gemelle combattono per la supremazia sul cielo e sulla terra, una battaglia che si risolve solamente quando Zoroastro sconfigge i Magi adoratori dei daeva. Da allora, lo “Spirito Buono”, Ahua Mazda, ha sempre regnato supremo.
Ciò significherebbe che gli dèi-sovrani iranici giunsero nella loro mitica terra natale, la Airyana Vaejah, intorno al 9.588 a.C.? Approssimandola di alcuni secoli, questa data era notevolmente vicina alla finestra temporale in cui la cultura egizia degli anziani si sarebbe dissolta. Visto che lo Airyana Vaejah è stato identificato con gli altipiani curdi, potrebbe questa tradizione indicare l’arrivo nella regione di quegli stessi anziani che diedero poi vita alla cultura dei Vigilanti?Secondo la mitologia iranica, le forze dualistiche di Ahura Mazda e di Angra Mainyu nacquero da un essere supremo chiamato Zurvan, simbolo del “tempo infinito”. Nel culto romano del dio Mitra, sviluppatosi da fonti primarie iraniche, il concetto di “tempo infinito” veniva simboleggiato da una divinità dalla testa di leone. Le statue che ritraggono questa figura leonina mostrano i dodici segni dello zodiaco sul petto e un serpente che si attorciglia sulla sommità della sua criniera. Anche se la divinità non viene mai identificata con un nome (pur essendo occasionalmente legato a Eone, un dio gnostico del tempo), gli studiosi del mitraismo lo descrivono come un kosmokrator, l’intelligenza che controlla il fenomeno della precessione.Trovare un kosmokrator dalla testa di leone le cui origini risalgono ad una tradizione che vedeva la storia del mondo iniziare nel 9.588 a.C, durante l’Età del Leone, era cosa impossibile da ignorare. È possibile che, sebbene il ciclo processionale fosse perfettamente compreso dalla cultura egizia degli anziani, le culture successive che ereditarono quella tradizione non riuscissero a comprenderne la meccanica? Quindi, invece di capire che il Leone lasciava il posto al Cancro, che lo lasciava ai Gemelli e quindi al Toro, il simbolo del felino divenne l’unico kosmokrator o guardiano del tempo infinito, più o meno nello stesso modo in cui la Grande Sfinge divenne un segnale del tempo processionale nella piana di Giza.
La tragedia della caduta
La cultura egizia degli anziani non è mai entrata a far parte della storia ufficiale. Il ricordo dei suoi presupposti discendenti, i Vigilanti del Kurdistan, non è che una vittoria di Pirro. Ricordati come angeli di rara bellezza che caddero dalla grazia, o come dèi e dee immortali o ancora come demoni viziosi che corruppero le menti dell’umanità, non viene dunque resa giustizia ai loro incredibili progressi nei campi dell’astronomia, dell’agricoltura, della mitologia della terra, della tecnologia delle costruzioni e della struttura sociale. Sono stati quasi certamente i discendenti della cultura egizia degli antenati a lastricare la via della civilizzazione del mondo antico.
Tuttavia, quegli individui hanno fatto molto di più: sembrerebbe che abbiano lasciato al mondo un’importante eredità. Eredità che può essere rintracciata nella mitologia delle stelle e della terra nella piana di Giza, così come nei miti e nelle leggende universali concernenti cataclismi mondiali e precessioni. Essa trascende ogni barriera linguistica e può essere “letta” da tutti. È un semplice messaggio ripetuto più volte, come un segnale di SOS ricorrente, suggerendo che ciò che accadde alla loro razza potrebbe accadere di nuovo. Per una qualsiasi ragione, la nostra civiltà potrebbe sprofondare nell’oblio senza lasciare traccia ed essere spazzata via dalle pagine della storia, a meno che non ci svegliassimo da questa amnesia collettiva che sembra durare da 11.000 anni e ci rendessimo conto che la nostra razza non è mai stata la prima.
I liberi pensatori, i mistici e gli studiosi delle meraviglie asseriscono da tempo che la civiltà è molto più antica di quanto la scienza vorrebbe che pensassimo. Spesso i loro libri ripetono quasi esattamente la stessa cosa. Le piramidi, Tiahuanaco, i Maya, Piri Reis, Hapgood, Platone e le pile di Baghdad sono solamente alcune delle parole chiave ripetute di continuo. Tuttavia nessuno, se non i credenti, hanno mai preso sul serio questi argomenti.Soprattutto a partire dalla nuova datazione della Sfinge, sebbene non accettata dagli egittologi, sin troppe sono state le prove per poter continuare a negare che una cultura avanzata sia esistita alla fine dell’ultima era glaciale. Da dove venisse quel popolo è cosa completamente ignota. Alcuni potrebbero suggerire che provenisse da Atlantide ma, in tutta onestà, non ne abbiamo la minima idea. La cosa di gran lunga più importante è che sia fatto un passo alla volta, affidandoci unicamente a fatti comprovati, nella speranza che questa volta il mondo intero possa partecipare alla più grande rivelazione dei nostri tempi.
Uomini-uccello nel deserto orientale
Collins afferma che la cultura antidiluviana che costruì la Sfinge di Giza emigrò verso l’attuale Asia minore spinta da eventi catastrofici. Essa avrebbe dato vita quindi agli uomini-uccello Nephilim, secondo il nome che gli viene offerto dalla Bibbia. In Egitto però troviamo l’operato di una classe sacerdotale, gli Shemsu Hor, che agisce nel medesimo modo e con le stesse conoscenze di coloro che sarebbero emigrati verso l’Anatolia e il Kurdistan. E’ più corretto quindi parlare di diaspora. Le tracce di questo passaggio da Oriente a Occidente e viceversa sono state ben documentate tra il 1997 e il 2000 dal ricercatore inglese David Rohl (autore del saggio l’Eden a Oriente – Piemme) che ha condotto una serie di sette spedizioni di ricerca nel vasto deserto orientale egiziano con lo scopo di rinvenire esemplari di pittura rupestre precedenti all’epoca dei faraoni. Sono stati documentati 116 siti di arte litica risalenti a 7000 anni fa, traboccanti di immagini esotiche dell’Egitto primitivo. Vi sono immagini di imbarcazioni, animali e cacciatori e, in località chiave, anche ciò che sembrano essere delle mappe tracciate su visioni aeree. Questa regione abbondava di flora e fauna. Gli aridi wadi con cui siamo familiari erano in passato vallate semi-fertili con stagni occasionali localizzati in corrispondenza dei più vasti siti di arte litica. Le pitture preistoriche immortalano specie normalmente associate alle savane dell’Africa subsahariana – elefanti, giraffe, bestiame selvatico, leopardi, gazzelle, stambecchi, struzzi e persino animali acquatici come ippopotami e coccodrilli. Alcune incisioni raffigurano animali sul punto di essere ritualmente macellati da figure piumate in atto di scoccare delle frecce. Inoltre molte delle scene di caccia sembrano avere un carattere sciamanico: le figure umane indossano code di animali alla vita o corna e piume sul capo. Rappresentando se stessi come tori o uccelli, i cacciatori tentavano di acquisire il potere e la forza degli animali catturati. Anche questi usi vennero trasferiti nell’arte religiosa dell’era faraonica quando gli dei venivano rappresentati mentre indossano lunghe piume o corone costituite da dischi solari incastonati tra corna bovine. Lo sciamanesimo degli uomini-uccello Nephilim o meglio, degli egizi Shemsu Hor è rilevabile quindi in quest’arte rupestre e conferma che questo popolo, la cui esistenza fu supportata da egittologi del calibro di Walter Emery e Flinders Petrie, agì in Egitto per millenni sino alla nascita dell’Egitto faraonico. Alcune rappresentazioni predinastiche egizie della dea-uccello o dea-serpente sono del tutto simili a quelle delle culture Jarmo e Ubaid a conferma di quest’indissolubile quanto non riconosciuto legame.