Platone e la filosofia esoterica.
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Platone e la filosofia esoterica.
relazioni con la tradizione sapienziale dell’Ellade.
Infatti Platone, nel descriverlo, usa immagini di origine e significato ‘misterico’: per lui la conoscenza suprema non è un atto logico, una ‘conquista’ del pensiero ‘discorsivo’ ma è una ‘visione’ ed un evento interiore di natura ‘sovra-razionale’ proprio perché concerne il ‘sovra-naturale’.
Egli descrive infatti tale ‘apice’ come un ‘fuoco che nasce d’improvviso nell’anima’ e determina una conoscenza ‘che non si può in nessun modo comunicare’ (quindi neanche attraverso la oralità!), ed è quindi totalmente ed intrinsecamente ‘ineffabile’.
Il sapere filosofico, infatti, se vuole tradursi in sapere ‘sofico’ deve tener presente il ‘fatto’ che il progresso della conoscenza, che è poi il progresso dell’anima, non può prescindere mai da una ‘partecipazione’ esistenziale profonda, da una ‘coerenza’ di comportamenti’, da una ‘purezza interiore’ che corrispondano alla ‘nobiltà d’animo’, alla ‘non-passionalità’, all’acquisizione di un ‘abito virtuoso’, poiché ‘il simile si conosce col simile’.
Senza ‘virtù’ non c’è conoscenza.
Per conoscere il ‘divino’ bisogna rendersi ‘consustanziali’ ad esso.
Ma proprio la invalicabile necessità di una partecipazione profonda al processo dialettico della filosofia fa sì che essa diventi di fatto un sapere esoterico: ‘sa’ chi si adopera integralmente per il sapere, ma questo coinvolgimento implica il passaggio dal piano intellettuale a quello ontologico.
A livello esoterico si apprende con tutto l’essere, cioè col pieno coinvolgimento emotivo e con sforzo di coerenza nei comportamenti, cioè ‘realizzando’ il dominio, il controllo della coscienza sugli istinti e sulle emozioni divenendo ‘signori di noi stessi’.
Tale ‘libertà interiore’ non è possibile senza quella ‘catarsi’ che i misteri e la filosofica possono e debbono procurare.
Tale ‘salto’, però, tale ‘processo’, non è compiuto da tutti coloro che ‘ascoltano ‘il discorso filosofico’ e dunque la ‘vera’ filosofia non può non essere che ‘esoterica’, cioè riservata a chi la ‘pratica’ e culmina in una ‘illuminazione’ mistica, cioè in uno stato di coscienza ‘indicibile’.
La filosofia non ha senso se rimane un gioco intellettuale, senza partecipazione profonda, senza ‘desiderio’ autentico e vissuto del Vero.
I ‘giuochi intellettualistici’, la schermaglia di tesi contrapposte, non producono vera conoscenza ma conducono solo a sterili e defaticanti polemiche se non sono ‘mosse’ da un puro intento di Conoscenza e di Bene.
Senza una vera ‘aspirazione’ all’Alto non c’è conoscenza dell’Alto.
E tale Aspirazione (come la sacerdotessa dei misteri Diotìma insegna a Socrate nel Simposio) è la forma più alta dell’Eros.
L’amore per la Conoscenza è già di per sé desiderio d’unirsi, di ‘fondersi’ amorosamente con l’ Uno.
Per questo senza Eros non c’è Sofìa.
Ma è vero anche il contrario: senza Sofìa è incomprensibile il senso stesso dell’Eros.
L’amore per l’altro mondo, la ‘tensione’ verso di esso, nasce solo se si percepiscono i limiti ed il male di questo mondo; chi non si accontenta più di questo mondo, chi ne prova ‘disgusto’ trova in sé l’energia per volgersi verso qualcosa di più alto, di sublime.
La catarsi filosofica può iniziare solo quando si vede, anzi: quando si ha il ‘coraggio di vedere’ il mondo, ‘questo’ mondo qual è.
La filosofia non si può separare dalla volontà ascetica.
Essa esprime una nostalgia ed un anelito.
È un esercizio di ‘separazione’.
Il tema del ‘nostro’ mondo come regno del male, della sofferenza, dell’impermanenza, non è un tema ‘pessimistico’ platonico o buddista ma è una visione ‘sapienziale’, ‘onesta’, e ‘lucida’ del mondo quale le generazioni antiche avevano trasmesso nell’Ellade, assieme però alla speranza, alla certezza di un altro piano d’esistenza più felice e ‘puro’ a cui possiamo giungere già da questa vita ‘incarnata’.
Già lo stesso Nietzsche notò nella sua opera ‘La nascita della tragedia’ che al fondo della cultura greca sta la sentenza sapienziale del ‘saggio’ Sileno, seguace di Dioniso:
“La cosa più desiderabile per l’uomo è non essere nato, non essere, essere niente.
Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto “ (GT, III/I, 31-32).
Del resto anche Sofocle nell’Edipo a Colono, la mette in bocca al coro:
“Non essere nati, è condizione / che tutte supera; ma poi, una volta apparsi, / tornare al più presto colà donde si venne, / è certo il secondo bene” (vv. 1224-1227).
La percezione della infelicità intrinsecamente connessa alla condizione umana genera la volontà ascetica, la quale, sempre secondo Platone, da sola non basta se si traduce in una mera ‘fuga’.
La trasformazione spirituale avviene nel contesto dei mali e delle ingiustizie di questo mondo in una incessante lotta con essi; e tale lotta implica che l’anima si perfezioni proprio nell’arduo impegno di migliorare se stessi e la polis.
L’ascesi filosofica, attraverso cui si acquisiscono le virtù, migliora chi la pratica e di conseguenza anche la società in cui il saggio vive.
Per questo nel celebre ‘mito della caverna’ Platone ci racconta come il prigioniero che è uscito fuori dal suo luogo di reclusione ed ha visto la luce della vera realtà ridiscende poi nel mondo ‘illusorio’ e buio in cui lui stesso prima viveva per portare alla salvezza gli altri suoi compagni.
Per questo l’uomo ‘che sa’, il ‘sapiente’, è il solo che abbia titolo e qualità per guidare secondo giustizia la polis, rendendo così questo ‘mondo’ il migliore possibile, anche se, proprio per la sua saggezza, sa di non poterlo rendere perfetto.
Ma se nel nostro mondo c’è qualcosa che vibra in noi e ci attrae e ci entusiasma quando ci troviamo di fronte al ‘bello’, se c’è qualcosa che vibra in noi di fronte al ‘vero’ o di fronte al ‘bene’, se in noi cresce la sete del Vero in sé, cioè del Vero totale, del Bene in sé, del Bello in sé, è evidente che noi partecipiamo di un altro mondo già da questa esistenza.
Quell’altra realtà ci ‘compenetra’, pur se ai più rimane ‘velata’.
Quel ‘mondo’ è quello in cui il Vero, il Bello, il Bene sono al massimo grado, e quel grado è proprio quello a cui aspiriamo, più o meno coscientemente.
L’Arte che persegue il Bello, la Religione che persegue il Bene, la Filosofia che persegue il Vero sono prodotto ‘umano’ di quella aspirazione.
La prova che c’è un Mondo oltre il nostro mondo, che c’è una Realtà oltre la nostra realtà è nella nostra stessa coscienza.
Questa Realtà Suprema è già ‘dentro di noi’(come Eros e come Logos), bisogna solo ‘scoprirla’, ‘toglierle il velo’, ‘ricordarla’.
Per questo i Greci chiamavano la Verità Aletheia, cioè ‘la non-dimenticanza’ e la tecnica filosofico-iniziatica di Platone consisterà nel volgere la coscienza verso l’Alto e verso l’Interno dopo averla separata dal mondo sensibile.
Tuttavia va precisato che l’idea del Bello in sé, così come quelle del Bene in sé e del Vero in sé non sono solo (come vengono normalmente considerate) dei ‘canoni’ astratti, dei ‘concetti’ universali, delle idee-valori con cui pensiamo e giudichiamo il mondo sensibile ma per Platone sono delle ‘realtà sussistenti’ del mondo iperuranio che vanno contemplate, cioè ‘viste’ nella loro pura dimensione metafisica, in quella dimensione in cui non sono ‘depotenziate’ e ‘contaminate’ dalla materia.
Che ci siano ancora tali equivoci interpretativi è cosa invero ‘strana’ e la causa può ben essere individuata nel particolare modo (quello meramente ‘razionale’) con cui l’uomo ‘moderno’ interpreta il mondo.
Eppure Platone ha formulato una teoria gnoseologica, nota come ‘teoria della linea’, la quale dovrebbe ‘fugare’ ogni dubbio in merito.
Egli infatti indica nella Repubblica (VI, 511c-511e) quattro gradi della conoscenza, divisi in due gruppi.
La doxa (opinione) si articola in due gradi ascensivi:
- la eikasίa (immaginazione), livello in cui si confonde la propria produzione immaginativa con l’esperienza sensibile del mondo;
- la pistis (credenza), livello in cui si ‘crede’ che il mondo sensibile sia l’unico possibile e articolato così come i sensi ce lo presentano.
Il secondo gruppo, indicato con il termine epistéme, indica i livelli superiori della conoscenza, quelli di un sapere già ‘illuminato’, in quanto svincolato dal mero dato sensibile, definibile come ‘razionale’ o ‘scientifico’.
L’ epistéme a sua volta si articola in diánoia e nόesis: la diánoia (da diá, ‘attraverso’ e nous, ‘pensiero’) è quel grado della conoscenza che si ottiene ‘attraverso’ i procedimenti della logica discorsiva, la nόesis è invece quel grado in cui lo spirito ‘intuisce’ direttamente le idee, in particolar modo le idee-valori del Vero, del Bene e del Bello.
Pertanto, se la conoscenza ‘dianoetica’ s’identifica con la conoscenza ‘scientifica’, quella ‘noetica’, priva di ogni mediazione ‘argomentativa’(espressa dalla preposizione diá), è la conoscenza ‘filosofica’ nel suo grado più elevato, cioè quella ‘metafisica’.
Di conseguenza è un grave errore quello di voler attribuire a Platone l’opinione che il grado massimo della conoscenza è quello della razionalità che procede come un ‘discorso’, cioè di tappa in tappa ed in modo faticoso e indiretto.
Il ‘procedimento’ razionale per sua natura avanza di grado in grado derivando conclusioni da premesse, cioè attraverso passaggi argomentativi concatenati che però hanno sempre la loro origine nel limitante dato sensibile.
Chiarito tutto ciò va però detto che taluni equivoci interpretativi sono causati da un uso troppo estensivo del termine lόgos nel linguaggio filosofico greco.
Esso infatti viene usato sia per indicare la facoltà attraverso cui si ‘pensa’ e si crea la ‘scienza’ sia quella attraverso cui si ‘contempla’ la verità metafisica.
Opportunamente nella tradizione metafisica indiana vengono utilizzati due diversi termini per indicare la mente ‘discorsiva’ e la coscienza ‘intuitiva’: rispettivamente quello di manas e quello di buddhi.
Una distinzione lessicale presente, come s’è visto, nella teoria gnoseologica platonica attraverso il diverso significato ed il diverso valore dei termini diánoia e nόesis ma purtroppo non sempre rispettata nella tradizione speculativa greca.
L’ambiguità nell’uso del termine lόgos può essere ‘superata’ ed in qualche modo ‘spiegata’ , quantomeno nel contesto platonico, se si considera come si possa ritenere, col filosofo ateniese, che la facoltà del pensiero attraverso cui costruiamo la scienza del sensibile è la medesima che per suo intimo sviluppo può ‘maturare’ in una capacità ‘intuitiva’, ‘contemplativa’, cioè ‘teoretica’ in senso proprio in quanto capace di ‘vedere il divino’ (theόs – oráo).
È evidente infatti che i ‘gradi’ del conoscere implicano la possibilità di un graduale evolversi della facoltà conoscitiva umana generalmente intesa.
Dunque, se il lόgos ad un livello ‘inferiore’ s’identifica con la procedura razionale attraverso cui comprendiamo il mondo sensibile, il lόgos a livello ‘superiore’ sarebbe la ‘pura coscienza’ che è qualificabile come ‘superiore’ in quanto può essere anche coscienza del pensiero e delle sue procedure e pertanto ‘trascendente’ rispetto ad esso.
È solo tale ‘pura coscienza’ dotata di una capacità conoscitiva non mediata dai sensi che ha la capacità di conoscere le idee, gli archetipi del mondo sovrasensibile è cioè quel lόgos che si manifesta come ‘intuizione intellettuale pura’.
È come se la ‘potenza dello spirito’, nel momento in cui sia svincolata dai suoi processi ‘ordinari’ relativi al mondo sensibile, acquisisca tutta la sua capacità ‘originaria’ d’intuire il sovrasensibile.
Di conseguenza ne proviene che, per arrivare a tale meta, la prassi, la ‘tecnica’, non può consistere in altro che nell’allenarsi a svincolare la consapevolezza dal mondo ‘esteriore’ ed abituarla a ‘sussistere’, a rimanere ‘unificata’, ‘concentrata’ senza dipendere più da ‘dati’ percepiti o pensati.
Di fatto è la stessa tecnica dello yoga indiano che per essere attuata più efficacemente va accompagnata dalla più rigorosa immobilità fisica, così come era solito fare Socrate, il quale, stando alle fonti, era capace di rimanere vigile ma insensibile al mondo esterno ed immobile per una intera giornata.
Non altro vuol dire quindi l’ammonimento socratico-platonico a ‘separare l’anima dalle cose sensibili e dal corpo’ per ‘isolarla’ e farla così ‘volgere verso il mondo intellegibile’.
Nel Fedone (67 c-d) si dice che con tale prassi si opera una ‘catarsi’ che è “la stessa dell’antica dottrina (chiaro riferimento alla sapienza sacra ed in particolare, forse, a quella misterica e orfico-pitagorica) e consiste appunto nel separare il più possibile l’anima dal corpo e nell’abituarla (e ciò presuppone una costante prassi meditativa) a raccogliersi e a restare sola in se stessa (la ‘con-centrazione’ !) e a rimanere per il tempo presente (nella vita ‘terrena) e futuro (dopo la morte) sola in se medesima, sciolta dal corpo come da catene.
Tale condizione infatti è importante mantenerla anche dopo il decesso poiché l’anima di chi rimane ‘attaccato’ al corpo, dice Platone, non riesce ad allontanarsi dal piano di esistenza da cui è appena ‘uscita’ e precipita in una condizione di angoscia e di turbamento.
In un altro passo dello stesso dialogo (79 d) è altrettanto chiara la natura di quel processo attraverso cui l’anima s’innalza al sovrasensibile:
“Quando l’anima, restando in sé sola, volge la sua ricerca (cioè alimenta la sua ‘aspirazione’ conoscitiva senza più legarla al sensibile) allora si eleva (per un suo autonomo, spontaneo ed ‘ontologico’ processo di liberazione) a ciò che è puro, eterno ed immortale”(cioè al ‘divino’) e avendo natura affine a quello (c’è dunque una identità sostanziale tra lo spirito umano e quello di Dio), rimane sempre con quello ogni volta che le riesca essere in sé e per sé sola…e questo stato dell’anima si chiama ‘sapienza’.”(frόnesis, sinonimo di sofίa)
La sofίa è dunque l’intuizione mistica del divino ed a tale esperienza è naturalmente funzionale la filo-sofίa.
Per acquisire la sofίa bisogna che la coscienza raggiunga (attraverso una catarsi dialettica) una condizione ‘estatica’ che cioè sappia ‘separarsi’ dal sensibile ed il primo ‘grado’ di tale separazione è proprio la vita morale la quale comporta un effettivo distacco dalle pulsioni e dagli istinti del corpo/materia.
In tal modo essa può provare quella ‘divina ebbrezza’ che la tradizione misterica indicava come ‘manìa’, ‘entusiasmo’ e conseguire quella conoscenza illuminativa che la stessa tradizione indicava come ‘epopteia’.
È quindi perfettamente comprensibile come Platone, quando descrive quelle condizioni dello spirito e quei livelli di conoscenza usi sempre la terminologia del sacro tipica delle esoterismo, cioè della tradizione misterica, già ben definita nell’età arcaica dell’Ellade.
Per tutto questo risulta chiaro il motivo per cui nei dialoghi, quando gli interlocutori si trovano a dover affrontare questioni metafisiche troppo ardue, Platone si appella alla tradizione sacra della sua terra.
Lo ha messo bene in evidenza Giovanni Reale:
“ La fede di Platone era quella degli Orfici e dei misteri dell’Orfismo… gli Orfici presentavano le loro credenze come divine ‘rivelazioni’ e a queste rivelazioni udite da sacerdoti, da sacerdotesse e da poeti, esplicitamente Platone, più di una volta, fa riferimento.
Quando nel Menone il dialogo cade in crisi e non par possibile procedere oltre, Socrate si rifà appunto a queste rivelazioni:
Socrate – … Ho udito … da uomini e donne esperti nelle cose divine …
Menone – Che cosa dicevano?
Socrate – Una cosa vera, a mio parere, e bella.
Menone – E quale cosa è questa, e chi sono quelli che la dicono?
Socrate – Quelli che la dicono sono sacerdoti e sacerdotesse, di quelli che si curano di essere in grado di dar ragione alle cose alle quali attendono. Lo dice anche Pindaro, e molti altri poeti che hanno divina ispirazione …”
Ma Socrate poi continua:
“E le cose che essi dicono sono queste … essi affermano che l’anima dell’uomo è immortale, che talora termina la vita terrena, ciò che si chiama ‘morire’, e talora di nuovo rinasce, ma che non perisce mai: per queste ragioni bisogna vivere nel modo più santo possibile” (Platone, Fedone, comm. di G. Reale, Brescia, 1988, intr. XXXV).
Insomma lo sforzo di Platone si potrebbe definire come un tentativo di ‘dimostrare’ e ‘fondare’ ‘razionalmente’ quelle ‘verità’ che la tradizione sacra dell’Ellade aveva scoperto e tramandato.
In effetti, sempre nel dialogo Fedone, dopo aver comprovato attraverso argomenti razionali l’immortalità dell’anima, ritiene di dover ‘confermare’ tale tesi attraverso il racconto di un mito sull’al di là.
Platone ritiene che esso, come tanti altri, sia sostanzialmente un modo ‘popolare’ e ‘tradizionale’ di dire delle verità circa il problema della sopravvivenza e del giudizio oltremondano.
Anche in tal caso il mito è la ‘versione’ narrativa e fantastica, che ha tutta l’autorevolezza della ‘tradizione’(Platone usa l’espressione: come dicono…), di una verità che la filosofia può esprimere più maturamente con i concetti del logos.
Nel racconto platonico così Socrate, pochi istanti prima di bere la cicuta, introduce quel mito escatologico:
“Ebbene, o amici, questo, se non altro, sarà bene che sia chiaro nella mente: che, se l’anima è immortale, ella avrà bisogno della nostra cura, né solo per questo spazio di tempo che chiamiamo vita, ma per sempre; e che oramai, dopo quel che s’è detto, anche il pericolo, a chi non ne abbia cura, dovrà apparire assai grave.
Infatti, se la morte fosse una liberazione da ogni cosa, gran fortuna sarebbe per i malvagi, morendo, sentirsi liberi non solo del corpo, ma, nello stesso momento, insieme con l’anima, anche della loro malvagità.
Ma ora che l’anima ci si è rivelata immortale, nessuno scampo ella potrà avere dei mali né alcuna salvezza, se non in quanto divenga il più possibile virtuosa e intelligente.
Perché nient’altro l’anima ha con sé, andando nell’Ade, all’infuori della sua formazione intellettuale e del suo abito morale, che è ciò appunto, come dicono, che grandemente giova o nuoce a chi muore, sùbito al principio del suo viaggio nell’al di là.
E si dice così: che dunque, appena uno cessa di vivere, il suo demone, quello che lo ha avuto in sorte durante la vita, lo conduce in un certo luogo; quando poi, quelli che sono stati lì radunati, si siano lasciati giudicare, allora bisogna che di lì passino nell’Ade, e per guida hanno appunto colui al quale è stato assegnato di condurre le anime da questo luogo nell’Ade.
E, dopo subìta laggiù quella sorte che debbono subire e aspettato quel tempo che devono aspettare, un’altra guida li riconduce qua; e questo avviene entro molti e lunghi periodi di tempo.
E la strada non è come dice il Tèlefo di Eschilo: ‘la semplice via conduce all’Ade’ egli dice; e invece a me pare che non sia né semplice né una sola; altrimenti non servirebbero guide, e nessuno mai si sbaglierebbe per andare in alcun luogo, se la strada fosse una sola.
In realtà pare si siano molte biforcazioni e trivi; e dico questo argomentandolo dai sacrifici e dalle cerimonie che usano qui.
Dunque, l’anima buona e intelligente segue il suo demone, e non ignora la sua sorte e condizione presente; ma quella che è tuttavia desiderosa del corpo, come già dissi prima, per lungo tempo è turbata ed agitata dalla passione per quello e per la regione visibile; e alla fine, dopo molto lottare e molto patire, trascinata a forza e a stento dal demone che le fu assegnato, se ne va via.
E giunta dove sono le altre, l’anima impura e che ha commesso qualche cosa d’impuro, o perché sia contaminata di uccisioni inique o abbia compiuto altre cattive azioni affini a queste, quest’anima, dico, ognuno la fugge e la scansa, e nessuno vuol esserle compagno o guida, e tutta sola se ne va errando in gran pena e incertezza fino a che non siano trascorsi quei certi periodi di tempo dopo i quali per forza è condotta via alla sede che le spetta.
Invece l’anima che ha trascorso la propria vita con purezza e temperanza, trovati come compagni e guide degli dèi, ecco che sùbito se ne va ad abitare ognuna nel luogo che le conviene” (Fedone, a cura di B. Centrone, Bari, 1991, pp.160-162).
Tutti i ‘temi’ di tale mito e tutte le convinzioni ‘razionali’ che se ne possono trarre riconducono con assoluta evidenza la spiritualità socratico-platonica a quella tradizione sacrale che dai misteri eleusini si svolge senza soluzione di continuità sino al neo-platonismo.
Proibiti i culti misterici dal cristianesimo e considerata da questo come ‘paganesimo idolatra’ ogni altra forma religiosa, la tradizione ‘esoterica’ è sopravvissuta in occidente soprattutto grazie alla ‘filosofia’ platonica.
La sua ‘cristianizzazione’ non è riuscita, però, nel corso dei secoli, a cancellare del tutto il suo fondo, la sua essenza di via ‘filosofica’ al sacro basata sulla libertà di ricerca e sulla personale esperienza, via dunque ‘antidogmatica’per sua stessa natura.
Platone, come s’è visto, s’ispirò essenzialmente ad una tradizione sacrale documentabile sin dagli inizi della civiltà ellenica e ne ripropose in forma filosofica le ‘convinzioni’ essenziali.
Pertanto se è vero che Platone è il ‘padre di ogni misticismo occidentale’ (e persino di quello cristiano) è altrettanto vero che proprio tale misticismo, tale esoterismo iniziatico è il vero ‘padre’ del pensiero platonico.